E’ una storia che assomiglia a quella di tanti altri ragazzi, quella di Nadia Murad, che si divideva tra casa e scuola e sognava di fare l’insegnante di storia o l’estetista.
Viveva un vita semplice, in un piccolo villaggio dell’Iraq settentrionale, fino al 15 agosto del 2014, quando l’Isis ha fatto irruzione nel suo villaggio, portando con sé una scia di sangue e massacri.
Sono 700 gli uomini e le donne che quello stesso giorno sono state rapite e uccise, numerose le fosse comuni, dove la stessa Nadia ha ritrovato gran parte della sua famiglia.
Lei è rientrata però tra le più “fortunate”: 150 ragazze di età compresa tra i 9 e i 28 anni, sono state infatti rapite e rinchiuse all’interno di veri e propri centri di distribuzione, dove i miliziani dell’Isis le costringono a vivere, usandole come schiave sessuali.
Nadia è riuscita però a scappare, ha trovato rifugio per circa un anno all’interno di un campo profughi in Iraq, poi è emigrata in Germania grazie al sostegno di un’associazione che fornisce aiuto e supporto alle vittime sopravvissute dell’Isis. E così grazie all’organizzazione Yazda, nel dicembre del 2015 Nadia ha trovato il coraggio di portare alla luce e all’attenzione della comunità internazionale i crimini commessi dai miliziani dell’Isis ai danni della minoranza curda degli Yazidi.
Attraverso il sostegno dell’associazione, la giovane è riuscita a parlare davanti al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, con lo scopo di sensibilizzare la comunità e i media su quello che è stato definito un “genocidio” compiuto ai danni di un popolo.
Nadia da quel 15 agosto ha perso tutto, ma è riuscita a ricostruirsi una vita, dandosi una missione: portare all’attenzione della comunità internazionale il problema del genocidio della minoranza yazida, ad oggi decimata, da parte dello stato islamico e il tema della violenza sessuale in situazioni di guerra.
Il tema dello stupro, infatti, è tanto importante quanto spesso messo in secondo piano, sia dai media che dagli ordinamenti giuridici. E’ difatti un’arma con la quale seminare terrore e distruggere tanto fisicamente quanto psicologicamente le vittime.
Sebbene esista una tutela a livello internazionale (ricordiamo che nel 2007 è stata creata l’UN Action Against Sexual Violence in Conflict, un’unità di coordinamento di 13 enti impegnati nella prevenzione e nel sostegno alle vittime di violenza sessuale in guerra), risulta ancora complicato capire come debellare il fenomeno.
Porre fine allo stupro di guerra e alle violenze dovrebbe essere un obiettivo comune dei diversi paesi della comunità internazionale, delle Istituzioni e dei singoli attivisti; ed è per questo motivo che il contributo e l’attivismo di Nadia, così come quello di tutti coloro che si impegnano per portare avanti una tale battaglia, vanno evidenziati e portati all’attenzione pubblica.
Asia Benenati