Il 3 Gennaio il Primo ministro etiope Hailemariam Desalegn ha annunciato, in modo del tutto inaspettato, il rilascio dei prigionieri politici e la chiusura della prigione di Maekelawi, da sempre oggetto di denuncia da parte delle organizzazioni per i diritti umani a causa di abusi e torture sui detenuti.
Desalegn ha definito questa decisione, arrivata dopo mesi di blocco totale del paese a causa delle proteste antigovernative, necessaria al fine di allargare a tutti lo spazio democratico e promuovere il dialogo.
Negli ultimi 26 anni il governo etiope ha utilizzato il sistema carcerario per zittire gli oppositori, reali o immaginari, e i prigionieri per reati d’opinione secondo le stime delle Ong ammonterebbero a decine di migliaia.
L’annuncio di Desalegn è rimasto tuttavia ambiguo, i mezzi di comunicazione locali e internazionali che da subito si sono apprestati a darne notizia sono stati infatti poi in parte smentiti da rettifiche del governo stesso, che ha sollevato questioni sulla traduzione dei documenti ufficiali o addirittura sull’inesistenza di detenuti politici nel Paese.
Il 17 Gennaio l’Etiopia sembra comunque mantenere la promessa rilasciando 115 detenuti, tra cui Merera Gudina, il leader del partito di opposizione che rappresenta gli Oromo, il più grande gruppo identitario del paese. Merera era stato, infatti, arrestato nel dicembre 2016 a seguito del suo intervento al Parlamento europeo in occasione del quale aveva criticato la decisione del governo di proclamare lo stato d’emergenza in risposta alle proteste della regione dell’Oromia.
Secondo la ricercatrice etiope Fisseha Tecke di Amnesty International il rilascio dei prigionieri politici rappresenterebbe il primo segnale della fine di una spirale di repressione sanguinosa ad opera del governo, tuttavia la svolta democratica dell’Etiopia è ancora piena di ombre. Al momento infatti non c’è nessuna garanzia sulle tempistiche e sulle modalità del processo di “scarcerazione” e restano incerte le modalità sulla scelta di quanti e quali detenuti torneranno in libertà.
Quello che potrebbe sembrare l’inizio di una nuova era per Addis Abeba è guardato da molte Ong con diffidenza e assimilato ad un’operazione di facciata finalizzata ad ottenere il consenso dei media e della comunità internazionale.
Leyla el Matouni