di Carlo Sorgi (già Giudice del Lavoro)
I Licenziamenti
C’era una volta l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, che adottava una soluzione piuttosto lineare per ogni tipo di illegittimità dei licenziamenti posti in essere da un datore di lavoro con più di 15 dipendenti: la reintegrazione nel posto di lavoro. La norma è sopravvissuta per quarant’anni, anche a tentativi di abrogazione per referendu (proposto dal Partito Radicale nel 1999) e per legge (proposta un paio di anni dopo dal Governo Berlusconi e che portò tre milioni di lavoratori in piazza il 23 marzo 2002 con il sindacato di Cofferati) fino alla riforma attuata nel 2012 dal governo tecnico di Mario Monti, insediato per rimettere ordine nella situazione finanziaria del Paese. In sostanza il legislatore, abbandonata la strada della eliminazione dell’art. 18, ha scelto nel 2012 quella della sua “mutilazione” e successivamente quella della “morte lenta”, avendo stabilito appena tre anni dopo il decreto legislativo n. 23/2015 – cd. Jobs Act -, voluto dal governo Renzi, la non applicazione della norma per tutti gli assunti in epoca successiva alla sua entrata in vigore (7 marzo 2015).
A proposito del Jobs Act personalmente ritengo che solo una parte dello stesso avrebbe potuto considerarsi positivamente: l’istituzione di un salario minimo, che era prevista dalla delega del Jobs Act ed è invece stata esclusa dai decreti attuativi.
La regola generale introdotta col nuovo regime è quella del pagamento di un’indennità risarcitoria a fronte dell’accertamento dell’illegittimità del licenziamento, residuando la reintegrazione solo per le ipotesi di: licenziamento nullo per discriminazione, licenziamenti orali; licenziamenti con motivo consistente nella disabilità fisica o psichica. L’altra novità che caratterizzava il decreto legislativo era la previsione che questa indennità fosse di entità risibile, poi invece aumentata con il cosiddetto decreto dignità (l.96\2018). La Corte Costituzionale con la sent.183\2022 pur riconoscendo l’illegittimità costituzionale della normativa sul punto ha rimesso al legislatore la soluzione scrivendo per altro che “un ulteriore protrarsi dell’inerzia legislativa non sarebbe tollerabile e la indurrebbe, ove nuovamente investita, a provvedere direttamente”.
Non è stata la destra a togliere l’art. 18, dobbiamo dirlo con onestà e la sinistra dovrebbe fare del suo ritorno un simbolo per una battaglia di civiltà.
Giustizia del lavoro
Se è vero che nel 1970 con lo Statuto dei lavoratori si attua in maniera eclatante il principio costituzionale della centralità del lavoro, per la vita del paese nel 1973, con l’introduzione del processo del lavoro, si realizza in questo settore la lettera del II comma dell’art.3, giustizia sostanziale. Viene introdotto un giudice che, partendo dal presupposto della differenza sostanziale tra le parti del processo, può rideterminare con il suo intervento la parità tra di loro, con poteri che gli altri giudici non hanno. In più viene realizzato un processo orale, concentrato e veloce come predicava il maestro della procedura civile Chiovenda, perché è nell’interesse di tutti un processo veloce.
Udite udite: il processo del lavoro funziona! Rende giustizia, lo fa in termini ragionevoli e comunque europei, incomparabilmente più brevi degli altri modelli di processo; i Pretori del lavoro, poi diventati con l’eliminazione delle Preture Giudici del lavoro, normalmente sanno fare il loro mestiere.
Tutto bene allora? No, perché evidentemente questa situazione mal si concilia con l’intenzione di rendere il lavoro flessibile e più in sintonia con le leggi del mercato.
Uno degli obiettivi dichiarati della legislazione che trae spunto dal libro bianco del quale vi ho parlato, è stato quello di ridimensionare il ruolo del giudice del lavoro, vera ossessione per qualcuno.
Si legge nel documento: ”In un quadro regolatorio moderno dei rapporti di lavoro anche la prevenzione e la composizione delle controversie individuali di lavoro deve ispirarsi a criteri di equità ed efficienza, ciò che senza dubbio non risponde alla situazione attuale. La crisi della giustizia del lavoro è, infatti, tale, sia per i tempi con cui vengono celebrati i processi, sia per la qualità professionale con cui sono rese le pronunce, da risolversi in un diniego della medesima, con un danno complessivo per entrambe le parti titolari del rapporto di lavoro”.
Fortunatamente per varie ragioni però non se ne fa niente e la giustizia del lavoro continuava a funzionare.
Allora il legislatore prova con un altro sistema che si può sintetizzare con la formula “Ingolfa et Impera”. L’art. 63 del D.Lgs. n. 165/2001 (art. 68, comma 1, del D.Lgs. n. 29/1993 nella stesura successiva alla riforma introdotta dall’art. 18, D.Lgs. 29 ottobre 1998, n. 387) prevede che al giudice del lavoro vengano devolute tutte le controversie inerenti ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.
Con una “bacchetta magica” tutte le cause di pubblico impiego ( circa il 40% del carico dei TAR ) vengono passate al Giudice del lavoro senza prevedere nessun aumento dell’organico. L’unica fortuna che ha impedito il naufragio del processo del lavoro è stata che questo passaggio è avvenuto con molta gradualità, nei primi anni della riforma le cause di pubblico impiego sono state veramente poche per uno strano meccanismo di attesa e questo ha consentito ai giudice del lavoro di prepararsi in una materia con grandi novità che ha richiesto molto studio ed impegno.
Attualmente anche a causa di un profondo ridimensionamento della cause di lavoro i tempi della giustizia del lavoro sono assolutamente accettabili in linea generale.
Ho letto in una delle mozioni presentate dai candidati alla segreteria del PD che uno dei principali disincentivi all’investimento privato in Italia deriverebbe dalla lentezza della giustizia in Italia. Non è così, certamente non nei giudizi di lavoro, ma il rischio come in ogni “story telling” che si rispetti è che, continuando a ripeterlo, poi passi questa idea. Ed il pericolo al riguardo è rappresentato da una soluzione che si prospetta per risolvere questo problema. Parlo della giustizia predittiva. La giustizia predittiva è un settore del diritto di recente sviluppo che consiste nel prevedere l’esito di un giudizio con l’ausilio delle nuove tecnologie informatiche e digitali.
Il PNRR ha previsto enormi investimenti sulla intelligenza artificiale, e per il settore che ci interessa parliamo proprio della giustizia predittiva, che potrebbe costituire un pericolo per la giurisdizione. Pensiamo ai pericoli di discriminazione.
In ambito giudiziario è famoso – oltre che rappresentativo del problema – il Caso Loomis, la vicenda di un cittadino americano che in Wisconsin fu condannato ad una pena determinata sulla base del punteggio assegnato dall’intelligenza artificiale. Si trattava di un uomo accusato di essere alla guida di un’auto usata durante una sparatoria e di non essersi fermato al controllo di polizia. Il giudice, nello stabilire la pena, aveva applicato una sanzione particolarmente severa di sei anni di reclusione utilizzando i risultati di un algoritmo chiamato Compas per aumentare la pena.
Nel caso di specie, Loomis era infatti stato qualificato come soggetto ad alto rischio e per questo era stato condannato non solo per ciò che aveva fatto, ma anche per ciò che avrebbe potuto fare in futuro in base al risultato del questionario elaborato dall’algoritmo. In alcuni casi, invero piuttosto frequenti, le macchine trovano difficoltà a effettuare valutazioni quando oggetto delle stesse sono persone non caucasiche.
Personalmente preferisco un giudice libero di decidere in autonomia e indipendenza, i tempi del processo si accorciano eliminando il vuoto degli organici in Magistratura (mancano quasi il 14% dei magistrati e il 25% di organico delle cancellerie), depenalizzando nel penale ma lasciando piena giurisdizione in settori sensibili della nostra società come quello del lavoro per rispettare la lettera e lo spirito della nostra Costituzione e della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.
Concludo con una valutazione politica: da troppo tempo, insieme con il sindacato per la sua parte, non abbiamo in Italia un partito politico che rappresenti gli interessi del lavoro, le ragioni dei risultati delle ultime elezioni si spiegano con la confusione delle posizioni politiche e questo genera in parte la disaffezione al voto (alta percentuale di astensione), in parte l’affermazione di liste populiste e sovraniste che alla prova del fatti non fanno l’interesse del lavoro ma, al più, quello di micro-corporazioni.
Occorre un forte impegno di tutti per rifondare al più presto una grande forza di sinistra in grado di rappresentare chiaramente le ragioni e gli interessi del lavoro.
(seconda ed ultima parte)