“Quanto manca alla cima, prof?” mi chiedono alcuni studenti che stanno arrancando, insieme a me, su per la collina di Sarajevo dietro la nostra guida che, nonostante abbia passato i 70 anni, con passo agile e rapido vi si inerpica, rischiando di arrivare solo alla meta. Che è un belvedere, prima tappa del tour, da cui ci indica dove fossero le postazioni serbe e quelle di difesa bosniache, là sul monte Igman, la sola vetta tenuta dall’Armija, l’esercito bosniaco . E poi, ecco, si scende verso il cimitero ebraico, dove era posizionata l’artiglieria serba, che ancora mostra i segni impressi dalla guerra sulle lapidi delle tombe. E poi, visita al famoso tunnel scavato sotto l’aeroporto, unica zona franca della città, pattugliato dai caschi blu ONU francesi. Il tunnel, scavato segretamente a partire dalla cantina di un’abitazione privata, era l’unica via che permettesse i collegamenti con il resto del paese. Unica via di approvvigionamento della città devastata dagli obici e dall’artiglieria nemica e sotto il tiro dei cecchini, rimasta senza acqua e senza gas per riscaldarsi nei lunghi e freddi inverni, e con penuria di cibo. E unica via per far entrare le armi per la difesa di Sarajevo sotto assedio, ma anche sotto embargo delle armi da parte della comunità internazionale.
Chi era il Generale Divjak?
La nostra guida, in quel viaggio di istruzione 2010 in Bosnia Erzegovina, era il Generale Divjak che la città ha difeso per tutti gli anni dell’assedio, 1260 giorni, un assedio lungo, più lungo di quello di Leningrado nella seconda guerra mondiale, fa notare qualcuno. Una preziosa e generosa guida.
Jovan Divjak se ne è andato l’8 aprile scorso, nella sua Sarajevo, la città che amava profondamente. Un amore contraccambiato dai suoi concittadini che lo chiamavano zio Jovo.
Era noto per essere ‘il generale serbo che difese Sarajevo’, ma questa definizione lo infastidiva perché ciò che amava del suo paese era proprio la ricchezza delle comunità che creava “l’armonia nata dalla differenza”. La convivenza di gruppi culturali e religiosi diversi era una realtà nella città che era appartenuta a due imperi, quello Ottomano e quello Austroungarico, ove a poca distanza fra loro si trovavano la moschea, la sinagoga, la chiesa cristiano-cattolica e quella ortodossa, dove a scuola gli studenti a settimane alterne scrivevano in lettere latine e in cirillico. “….una città cosi ricca di grandi qualità umane, soprattutto la tolleranza e la generosità”, dichiarò in un’intervista. A queste qualità che erano anche le sue, scevro da ogni tipo di nazionalismo e sciovinismo, rimase fedele e per esse combatté.
Divjak era un generale, ma era soprattutto e profondamente un uomo di pace. Si era schierato con i bosniaci aggrediti abbandonando l’esercito jugoslavo che ormai era un esercito partigiano dei serbi, e per questo fu da loro considerato un disertore.
Divjak e l’impegno nell’associazione “L’Istruzione costruisce la Bosnia Erzegovina”
Dopo la guerra, lui, che avrebbe voluto studiare psicologia, si dedicò alla cura dei giovani attraverso l’associazione ‘L’istruzione costruisce la Bosnia Erzegovina’ un’istituzione fondata, già durante la guerra, dapprima per aiutare gli orfani e poi impegnata a fornire borse di studio. D’altra parte aveva sempre detto che avrebbe preferito di gran lunga vedere i giovani con un libro in mano, anziché con un fucile.
Inseguito da un mandato di cattura internazionale chiesto dalla Serbia, nel 2011 fu bloccato all’aeroporto di Vienna e trattenuto per diversi mesi nella città austriaca, fino al suo rilascio per la manifesta infondatezza delle accuse contro di lui. Stava compiendo un viaggio in Italia su invito di diverse organizzazioni, ma una delle tappe sarebbe stata la nostra scuola, il Liceo Laura Bassi, dove lo avevamo invitato per una testimonianza. Purtroppo non arrivò mai.
Sarajevo lo ha salutato al canto di ‘Bella Ciao’.
Roberta Merighi