
La notte del 15 luglio 2016, mentre il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan si trovava fuori dal paese, un golpe militare ai danni del suo regime ha avuto luogo ad Ankara. A guidarlo un gruppo di militari che in pochissime ore ha dichiarato la vittoria, la presa del potere per ripristinare la laicità dello stato, la democrazia, il rispetto dei diritti umani e la libertà. I golpisti hanno anche imposto il coprifuoco e la legge marziale e occupato la città con carri armati, tra di loro moltissimi esponenti dell’esercito. L’azione tuttavia è stata subito sventata.
Le conseguenze di questo brevissimo e fallimentare colpo di stato sono state però molto più violente e durature. Il presidente Erdoğan ha promesso pene durissime per i golpisti, per aver “attentato all’unità e alla sovranità nazionale”, e non ha mancato di prestare fede alla sua parola. La sua caccia all’uomo, infatti, ha portato al licenziamento di più di 150mila persone, in migliaia sono stati incarcerati e torturati. Il presidente sostiene inoltre che ad aver pianificato il golpe sia stato il predicatore Fethullah Gülen, che si trovava in esilio negli Stati Uniti dal 1999, ragione per cui molti cittadini intellettuali laici sono stati presi di mira ed accusati di gülenismo.
Anche coloro che erano fuggiti all’estero non sono riusciti a scampare alla furia di Erdoğan, che con estradizioni, rapimenti e pressioni sui governi ha fatto in modo che anche loro ricevessero “giustizia”. Per recuperare i dissidenti fuggiti all’estero, infatti, il presidente si è avvalso della sua influenza su alcuni paesi compiacenti, prima tra tutti la Bulgaria, che gli hanno permesso di rimpatriare i presunti nemici dello stato.
Come ci racconta il settimanale Internazionale sul numero del 20/26 novembre 2020, moltissimi sono stati i cittadini turchi a richiedere asilo in territorio bulgaro, in seguito all’inizio delle persecuzioni, ma questo non è valso a dar loro protezione: nel 2016 la Bulgaria ha autorizzato il rimpatrio di otto cittadini turchi, ricercati per gülenismo, che avevano presentato richiesta d’asilo all’interno dei suoi confini. Nel suo articolo la giornalista Svetla Enčeva ci racconta due casi particolari, a dimostrazione della compiacenza della Bulgaria e del suo primo ministro Bojko Borisov verso il presidente turco Erdoğan.
Il primo è quello di Abdullah Büyük, un imprenditore turco trasferitosi in Bulgaria nel 2015, quando le persecuzioni contro i seguaci di Fethullah Gülen si erano fatte intense. La Turchia chiese più volte la sua estradizione, che fu rifiutata dalla giustizia bulgara. Successivamente l’imprenditore ha richiesto asilo politico: in Bulgaria è possibile ottenere lo status di rifugiato, sia tramite la presidenza della repubblica, che tramite la Dab, l’Agenzia nazionale per i rifugiati. A seguito della sua richiesta due membri dell‘intelligence bulgara gli offrirono aiuto, in cambio della sua infiltrazione tra i gülenisti. Al suo rifiuto è seguita l’estradizione e subito dopo il rimpatrio in Turchia, nonostante l’uomo non avesse commesso alcun reato tangibile. Le autorità bulgare hanno giustificato l’accaduto attribuendolo ad un problema burocratico, in quanto i documenti di Abdullah Büyük erano scaduti. La motivazione non ha tuttavia una corrispondenza con la realtà: al momento dell’espatrio il cittadino turco stava attendendo l’esito del ricorso da lui avanzato, dopo due rifiuti di richiesta d’asilo, senza menzionare il fatto che la maggior parte dei rifugiati viaggia priva di documenti. Come ha precisato la giornalista Enčeva “non si può pensare che lo stato da cui scappi ti rinnovi i documenti”.
Un altro caso è quello di Selahattin Ürün, anch’egli rimpatriato forzatamente dentro i confini turchi, mentre attendeva la decisione del tribunale amministrativo di Sofia, per conoscere l’esito della sua domanda di asilo. Non stupisce che il trentanovenne fosse un attivista del Partito Democratico dei popoli (Hdp), di sinistra e filocurdo. Lo storico Zelengora scrive “oggi il dittatore Borisov, con un atto di servilismo completamente fuorilegge, ha consegnato nelle mani del dittatore Erdoğan un altro esule politico[…].” L’avvocata dell’interessato, Valerija Ilareva, si è rivolta alla Corte europea dei Diritti Umani per bloccare il rimpatrio, ma il Ministero degli Esteri bulgaro ha smentito l’illegalità dell’estradizione, definendo il rientro dell’uomo all’interno dei confini turchi una “restituzione al paese d’origine”, espressione eufemistica motivata dal rispetto dell’accordo di riammissione tra UE e Turchia (2016).
La Bulgaria sta sfruttando l’utilizzo di eufemismi e formalismi per nascondere effettive violazioni di diritto, frutto a loro volta di rapporti di forza politici. I rimpatri sospetti avvenuti al confine tra Bulgaria e Turchia hanno tuttora delle conseguenze: per i migranti turchi è diventato quasi impossibile entrare in territorio bulgaro, dal 2015 infatti il governo ha dato inizio alla costruzione di una recinzione sul confine turco di oltre 160 km, con reti metalliche e filo spinato, insieme ad un consistente incremento di sorveglianza. Allo stesso tempo, grazie ai rimpatri “di favore” e alla generale accondiscendenza del governo bulgaro verso quello turco, Sofia gode di aiuti e doni da parte dell’amica Turchia, che allo scoppio della pandemia ha fornito materiale sanitario alle strutture ospedaliere bulgare: kit per test sierologici, guanti, mascherine e altri articoli indispensabili alla gestione dell’emergenza, soprattutto in una prima fase. Da notare come la sanità del paese si trovi già al di sotto degli standard italiani, senza considerare l’impatto del diffondersi dei contagi. Così il governo bulgaro ha scelto di optare per pace e tranquillità, in cambio di cittadini scomodi.
La Turchia ha cominciato a fornire aiuto alla Bulgaria il giorno successivo alla dichiarazione di apertura delle frontiere con la Grecia ai profughi (27 febbraio 2020). Nello stesso periodo i profughi al confine con la Bulgaria si sono drasticamente ridotti. Come ci raccontano Laura Filios e Christian Elia nel loro articolo: “Grecia-Turchia-Bulgaria: dispacci dalla tripla frontiera” pubblicato su Open migration:
“Dal 27 febbraio, giorno in cui il governo turco ha annunciato di voler “aprire le frontiere” verso l’Europa, nella striscia di terra incuneata tra Turchia, Grecia e Bulgaria hanno iniziato a confluire centinaia di migliaia di persone, tra migranti e richiedenti asilo […].”
Laura Filios, Christian Elia (Open migration)
Il flusso migratorio tuttavia si è rivolto solo alla Grecia, che in risposta all’apertura del presidente Erdoğan ha barrato i suoi confini con l’esercito, causando scontri con i migranti turchi e, in qualche caso, delle vittime. Come racconta Massimo Moratti, vice direttore dell’ufficio europeo di Amnesty International: “la Grecia ha messo in campo uno spiegamento di forze notevole, sia di polizia che dell’esercito. Questo ha generato – per alcuni giorni – violenti scontri tra coloro che tentavano di passare e le forze dell’ordine greche, che li hanno respinti utilizzando gas lacrimogeni, effettuando arresti e, in tre casi che abbiamo potuto documentare, hanno utilizzato pallottole che hanno causato almeno tre vittime.”
Questo scambio di favori reciproco, che vede al suo centro persone innocenti, non è passato inosservato. Una giornalista bulgara, Genka Sikerova, ha pubblicato sul sito Svobodna Evropa un’intervista con uno degli otto cittadini consegnati dal primo ministro bulgaro Borisov a Erdoğan nel 2016. L’uomo racconta come, non appena giunto in territorio bulgaro, sia stato costretto a firmare un documento in cui dichiarava di rifiutare un avvocato, un traduttore e lo status di rifugiato. In seguito è stato espatriato proprio perchè non aveva presentato richiesta d’asilo. Rientrato nei confini turchi il presunto golpista è stato incarcerato e torturato. Questa intervista è un’ulteriore conferma della realtà in cui questi cittadini turchi dissidenti si sono trovati. Una realtà in cui i diritti dell’uomo vengono ignorati e calpestati con indifferenza, per puri e semplici interessi politici.
Ignorare una privazione di diritto di questa portata all’interno di un paese membro dell’UE è impossibile, eppure avviene. La giornalista Svetla Enčeva, nel suo articolo su Internazionale, ci spiega infine come gli espatri, appoggiati dal primo ministro bulgaro Bojko Borisov, si trovino al vertice di un complesso problema di fondo, che pietrifica l’azione e impedisce una risoluzione delle vicende: se Sofia, membro UE, negasse i rimpatri e concedesse ai cittadini turchi che giungono sui suoi confini lo status di rifugiati politici, questo implicherebbe, da parte sua, riconoscere che il governo turco non sia un governo democratico, qualità che gli viene invece attribuita da Bruxelles.
Questi avvenimenti dimostrano ancora una volta come i rapporti di forza e di dipendenza portino al riconoscimento di un regime democratico, anche in una dittatura di fatto come la Turchia, in cui gli oppositori politici vengono torturati e incarcerati.
Marta Nicastro