Resistenza civile nonviolenta vs resa e passività

di Enrico Gorini – (ex obiettore di coscienza Caritas, avvocato)

L’opinione pubblica occidentale, dinanzi al dramma dell’Ucraina, appare oggi schiacciata fra due sole opzioni, entrambe “insostenibili”: quella militare, e quella antimilitare. In comune hanno l’obiettivo di favorire trattative di pace; differiscono per la diversa propensione all’invio di armi a Kiev, invio di armi efficace ai fini della pace per i “militaristi”, controproducente per gli “antimilitaristi”.

L’opzione militare presenta il grave rischio di un’escalation (non escluso un conflitto nucleare); l’opzione antimilitare rischia di consolidare la “legge del più forte”, favorendo nuove e più audaci pretensioni nazionalistiche (e forse violenze anche peggiori di quelle che si vorrebbe scongiurare). In mezzo, la politica delle sanzioni, che non sappiamo se saranno più utili o più dannose per la risoluzione del problema (personalmente, le reputo in ogni caso utili).

Entrambe le opzioni, sostegno bellico da una parte, pace coatta dall’altra, ripugnano profondamente alla coscienza civile per le nefaste conseguenze possibili. Eppure, i dibattiti in corso oscillano esclusivamente fra queste due scelte.

Esistono altre vie, alternative da una parte alla difesa armata, che è folle perché ammette la possibilità nucleare, e dall’altra alla diplomazia “debole”, che è ingiusta e pericolosa perché implica accondiscendenza a un criminale di guerra?

Una alternativa esisterebbe: è la “resistenza civile nonviolenta” (o “difesa popolare nonviolenta”). Dico subito che non è immediatamente attuabile, ma forse non è inutile iniziare a parlarne seriamente. Si tratta di un insieme di comportamenti coordinati, posti in essere da una popolazione preparata, tesi a vanificare lo sforzo di occupazione, a renderlo ineffettivo, costoso e, in ultima analisi, controproducente per l’occupante stesso. Prima di liquidare frettolosamente questa ipotesi come “utopistica” o “inefficace”, è utile notare che gli studi su tale tipo di difesa si sono fermati da decenni (ricordo i poco noti Johann Galtung, Theodor Ebert, Gene Sharp); non c’è mai stata alcuna informazione, tanto meno formazione, tanto meno ingegnerizzazione, tanto meno investimento; per la difesa militare, invece, in Italia si sono spesi oltre 20 miliardi ogni anno. Oltre a ciò, osservo che a fronte dell’assurdità e mostruosità di ogni intervento armato (che spesso genera più danni di quanti ne voglia evitare), ogni alternativa va presa in attenta considerazione.

Esiste una “teoria” della difesa civile nonviolenta, suffragata da frammenti storici, episodi spontanei e improvvisati, che nel loro piccolo fanno intravedere potenzialità enormi.

Un’immagine utile è quella del guscio d’uovo. Il guscio resiste alla rottura fino a una determinata pressione; oltre una certa pressione, il guscio si rompe e l’intruso entra senza trovare più alcuna resistenza. Similmente, un dispositivo difensivo militare, per quanto potente, ammette la possibilità di una rottura, quindi di una resa, e l’avversario entra senza trovare più alcuna opposizione; questo non avviene mai senza un certo numero di morti ed enormi danni materiali (e anche stupri, come vediamo purtroppo in questi giorni); dopo la resa definitiva con la forza delle armi, gli abitanti non intravedono alcuna alternativa rispetto alla completa soggezione politica, e si dispongono ad ubbidire.

La resistenza civile non violenta al contrario non offre resistenza all’occupazione militare, pertanto – cosa cruciale – evita lo scontro, salvaguardando la popolazione, le città, il territorio, e ogni prospettiva dissuasiva. Inoltre non contempla né una facile cessione di sovranità, né una resa definitiva; essa è simile ad un campo arato dopo le piogge: è facile entrarvi, ma poi si rimane impantanati. La popolazione si è infatti preparata a creare un ambiente sociale, economico e politico “refrattario”, “riottoso”, “vischioso” all’occupante, teso a vanificare i suoi sforzi di stabilire un nuovo ordinamento. Diversamente dalla difesa militare, che è difesa con un rapporto tendenzialmente “1 a 1” (sostanziale parità di persone coinvolte nei due campi), qui è impegnata tutta la popolazione, con un rapporto “1000 a 1” rispetto alle persone messe in campo dall’invasore. L’invasore ha un unico obiettivo: il potere (cambio di regime, annessione, governo fantoccio, e simili). Nel caso della difesa nonviolenta, il paese non si concentra sul “guscio” (quindi non crea scontri, né morti, né sfollamento, né distruzioni, né rottura di ogni possibilità di dialogo), si concentra invece sulla “gestione” dell’occupante, visto come un corpo estraneo da marginalizzare.

Principio fondamentale infatti, è che ogni potere, per quanto violento e oppressivo, ha sempre l’ineludibile necessità di ottenere un “minimum” di collaborazione da parte della popolazione (non a caso ogni governo occupante si preoccupa subito, e molto, di “convincere” la popolazione che la guerra è persa, e che è inevitabile obbedire; Hitler diceva: dobbiamo convincere a tutti i costi gli abitanti del paese sottomesso, che loro sono gli sconfitti, e noi i vincitori). Che un governo abbia bisogno di un certo grado di collaborazione, è dimostrato da un’esperienza a noi vicina: lo Stato italiano in certe aree del paese può essere visto (paradossalmente) come un “corpo estraneo”, o una “forza occupante” che fatica ad impossessarsi del potere effettivo, a causa dell’omertà, della non-collaborazione, delle “consuetudini vincolanti” dettate da un ordinamento giuridico parallelo (nel caso specifico, mafioso).

Basta che una fetta consistente di popolazione rifiuti di collaborare attivamente con l’occupante, e l’occupante va in crisi. Si tratta però di avere un’organizzazione capillare capace di occupare ogni spazio della vita pubblica, senza consolidare il potere esterno con atti di consenso di fatto.

La “nonviolenza dei forti” ha una dignità morale: si è disponibili infatti ad assumere sacrifici personali, al contrario della difesa armata dove l’esercito deve infliggere sofferenze agli altri, e non a sé. Inoltre essa parte dal presupposto che il “nemico” non è mai davvero la bestia che appare, e conserva sempre un fondo di umanità e di razionalità. Questo fondo di umanità è una grande risorsa, che offre un cruciale vantaggio alla resistenza civile nonviolenta: poiché manca un conflitto, si moltiplicano le occasioni di dialogo e confronto pacifico fra occupanti e occupati. Occasioni impossibili nello scontro armato. “Graecia capta ferum victorem cepit” (la Grecia, conquistata, conquistò il selvaggio vincitore): la potenza occupante, rischia di venire “occupata” (culturalmente e moralmente) da un popolo democratico che si è preparato a gestire questa situazione.

Per gestire un’eventuale occupazione militare, le popolazioni (le organizzazioni, le comunità locali) devono essersi preventivamente preparate e addestrate con impegno e serietà non minore, e anzi sicuramente maggiore, rispetto a quanto già ora avviene per la gestione di cataclismi da parte della protezione civile nazionale. In particolare hanno imparato a praticare una “vischiosità operativa” rispetto ai modelli proposti o imposti dal governo occupante. Le “grida” del governo illegittimo cadono su una generale indisponibilità al consenso; non nel senso di un rifiuto palese, che metterebbe a rischio la persona, ma nel senso di un’inerzia proporzionata al contesto, sfruttando ogni interstizio possibile, nei limiti della propria sicurezza. Le persone quindi continuano ad esercitare le attività come sempre (“proseguimento dinamico del lavoro senza collaborazione”), rispettando le normative già note, le precedenti abitudini e prassi, e collaborando solo con le disposizioni del “potere legittimo” (a questo proposito osservo che oggi non mi risulta esistente un piano per l’esercizio di governo dall’estero o dalla clandestinità); non c’è bisogno di fare gli eroi, è invece fondamentale che un numero elevato di persone abbia imparato a “dimenticare”, e/o adempiere malamente le direttive imposte, rafforzando e assecondando invece solo quelle di provenienza “legittima”. Ogni singola collaborazione dà forza all’avversario (e lo renderà sempre più “necessario”: è la logica dell’”ordine costituito”); e ogni singola non-collaborazione lo indebolisce, e alla lunga lo renderà inutile.

La somma dei comportamenti tendenzialmente unidirezionali determina la direzione del potere effettivo. Dipendenti pubblici e operatori economici sono preparati e formati a funzionare come le setole del gatto: le cose scorrono bene solo in una direzione (quella del governo legittimo), mentre si arrovellano e si complicano quando devono andare “in contropelo”. Senza la collaborazione dei milioni, le poche centinaia di migliaia di persone “mandate a governare” girano a vuoto; la “cinghia di trasmissione” del potere si riduce al minimo, mentre rimane ferma l’attitudine dei cittadini ad autogovernarsi secondo il proprio ordinamento giuridico e costituzionale.

Tutto ciò implica coraggio. Ma è un coraggio più democratico (aperto a tutti) e meglio speso, rispetto a quello dei ragazzi che “con audacia” devono uccidere altri ragazzi. Se sin dall’inizio non si fa funzionare la cinghia di trasmissione del potere, funzionerà poco anche l’apparato repressivo, e il potere occupante, che su tale potere si fonda, tende ad andare in crisi. La forza della persuasione e della verità con il tempo tende a scalfire la sicurezza degli occupanti, e i leaders del paese occupante si troveranno, prima o poi, davanti al problema di dover gestire un crescente dissenso interno (l’esperienza storica dimostra che il dissenso democratico trova sempre le sue vie – vd. il Samizdat in Urss).

Probabilmente questa terza via richiede investimenti in nuovi strumenti di ricerca, nuove discipline universitarie, molta “educazione civica”; inoltre esige una certa propensione al sacrificio personale. Ma la ferita alla coscienza delle altre due opzioni (guerra e pace coatta) è tale da consigliare un’attentissima ponderazione.

 

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