Negli anni ‘70 la Jugoslavia era l’unico paese al di lá della cortina di ferro ad essere stato persuaso dalle influenza occidentali, impegnate nella rivoluzionaria scena rock.
La posizione intermedia tra i due blocchi contrapposti, infatti, gli permetteva di assorbire le sonorità di alcune band (tra cui I Who, Rolling Stones e successivamente i Sex Pistols e gli Stooges), filtrate attraverso un’ottica del tutto nuova, quasi minacciosa per il regime dittatoriale di Tito. Il nuovo genere, che stava palesemente sconvolgendo i vecchi standard melodici, riuscì ad abbattere le barriere politiche in Jugoslavia, portando alla proliferazione di piccoli gruppi a volte confinati nell’anonimato per non dover incorrere nella censura monopartitica. Tuttavia i testi delle canzoni, a volte eccessivamente provocatori e pungenti, venivano pubblicati senza problemi. Era conveniente per i funzionari dell’epoca tenersi al riparo da possibili cospirazioni politiche. Se non fosse esistito questo regime di finanziamenti sulla discografia, i musicisti non avrebbero avuto l’opportunità di registrare.
Con la caduta del sistema repressivo, degli anni ‘80, si inizia a delineare un nuovo modo d’intendere la musica culminato con il “New Privitism”, un movimento sovversivo giovanile che, criticando gli stereotipi del cittadino jugoslavo, focalizzava l’attenzione sul substrato sociale in cui gli outsiders riuscivano a ritagliarsi la loro nicchia di libertà. Senza alcun dubbio il gruppo punk rock più apprezzato era “Elvis J. e i Meteors”. noto ai media per aver suonato una cover di “Maggie’s farm” di Bob Dylan in uno scantinato davanti a trecento fans e questo durante le Olimpiadi invernali di Sarajevo nel 1984. Nel testo rivisitato, I “Meteors” avevano inserito il nome della prima ministra britannica Margareth Tatcher, per celare quello della premier jugoslava Milka Planinc. La band poteva così, astutamente, canzonare l’ideologia del governo e accusare le manovre istituzionali della Planinc, soprattutto nella situazione kosovara e, di fatto, aggirare il meccanismo della censura statale.
Tuttavia ci si chiede perché le autorità comuniste lasciarono che questa cultura si ampliasse, senza stroncare sul nascere una tendenza rischiosa per il paese. Forse perché, attraverso questa nuova linea espressiva, i giovani potevano finalmente riprendere a respirare senza che ci fosse il timore condiviso di doversi mimetizzare ad un’armata di menti duttili e mute, incapace di maturare dissenso e un minimo senso di sovranità popolare.
Era quindi il governo jugoslavo ad aver fatto una scelta, forse di convenienza, ma non per forza sbagliata: l’alone di omertà, se così lo vogliamo definire, evitava di calpestare le velleità artistiche degli additati, dei nemici, dei più deboli – all’apparenza – e dava loro la possibilità, almeno per l’illusione di un istante, di poter masticare la spontaneità dell’essere giovani e non essere annullati dalla lugubre messinscena del potere.
Camilla Cazzato