L’amore è libero, o almeno dovrebbe esserlo

Come una coppia eterosessuale non riceverebbe critiche se si scambiasse un bacio fugace ad un tavolo d’un ristorante, sull’autobus o per strada, così dovrebbe succedere con una coppia non conforme alle “regole etero-normative”. Parecchie volte queste piccolissime dimostrazioni d’affetto vengono fatte pesare alle persone queer, le quali vengono punite e demolite dalla retorica del “fatelo a casa vostra”! Passeggiare mano nella mano è un sogno per molte e molti giovani omosessuali — un sogno che sembra alle volte davvero difficile da realizzare, dovendo scegliere strade poco frequentate, quartieri “gay-friendly”, vicoli bui o dovendosi circondare di schiere di amici per non temere occhiatacce, insulti o ancora peggio violenza fisica.

E si parla di un atto semplice e meraviglioso come quello del tenersi per mano.

Spesso si tende all’esagerazione, con la folle idea che il mostrare affetto possa portare alla degenerazione. Con una simpatica iperbole mi permetto di assicurare: nessuno vuole esporsi o praticare atti erotici per strada!

Poi però, nonostante si parli semplicemente d’affetto, compare sempre la famigerata retorica del “voler fare le cose apertamente per dimostrare qualcosa a qualcuno”. Molto spesso – per non dire quasi sempre – una frase del genere si riferisce ai meravigliosi e vari gay pride che colorano le strade delle nostre città, o a comportamenti che appaiano lontani dai canoni della cultura eterosessuale. Solitamente la bella e terribile frase sopracitata è accompagnata dalla presunta giustificazione “certi atteggiamenti si adottano per colpa di una forte insicurezza”.

Ci sono un’infinità di giovani queer che dubitano della propria identità, che non son sicuri di volersi o potersi esprimere, proprio per colpa di ragionamenti di questo tipo e per colpa di una visione rigida e francamente riduttiva della realtà, da parte di molte persone al di fuori della comunità LGBTQ+. E aggiungo anche che sì, è importante parlare di comunità. In quanto tale, una comunità — che essendo tale forgia una propria cultura, un proprio linguaggio, riti, etc. (e ciò succede in ogni comunità, persino in quelle religiose) — se oppressa rivendica i propri diritti. Ed è questo il punto focale: rivendicare diritti e ricordare al mondo la nostra esistenza. Quest’atto non è un circo, un’esibizione. È a tutti gli effetti una celebrazione ritualistica della libertà d’espressione e della presa di coscienza della propria identità. Il gay pride, ad esempio, ha anche un valore commemorativo e al contempo rivoluzionario. Prevedo già una possibile risposta, perché è la risposta che molte persone estranee a questo mondo (sfortunatamente) strumentalizzano per parlare del gay pride: “io supporto la vostra comunità, ma non questa eccessiva esternazione, che fa assomigliare l’evento ad un circo poco serio”. Ed io rispondo, il vero problema è la poca familiarità con il “nostro” linguaggio. Ciò si declina in due conseguenze: la prima è l’incomprensione dei modi e la seconda è l’incomprensione delle motivazioni. Ogni cultura, quando entra in contatto con un’altra, riflette aspetti della propria su quella che si trova ad analizzare, soprattutto se la cultura presa in esame è (come nel caso di quella LGBTQ+) tecnicamente una subcultura — che comunque fonda le proprie radici e si sviluppa all’interno della cultura dominante. Ma con un processo di distacco e con un piccolo sforzo d’empatia, si può (non facilmente) arrivare ad osservare questa seconda cultura con distacco e lucidità. I modi in cui ci si esprime (e nemmeno tutte le volte!) durante i gay pride, riguardano molto la libertà d’espressione ed il mettere in mostra il proprio corpo. Ciò non avviene per una scarsa fiducia in sé stessi, piuttosto è collegato alla spiegazione dei motivi per cui si agisce in questo modo. I membri della comunità nascono e crescono, nella maggior parte dei casi, in ambienti tradizionali, che forniscono al giovane in questione solamente esempi di eterosessimo. Dai cartoni (il principe va con la principessa), ai giocattoli (le macchinine ai ragazzi e le Barbie alle ragazze), dalle serie tv ai propri genitori, ai compagni di banco a scuola, in palestra, tutto il mondo ruota intorno a relazioni interpersonali e a concetti in cui un giovane queer non riesce ad identificarsi e con i quali lotterà a lungo, pur di lasciarsi sedurre da questa idea di “normalità”. Parallelamente a questo, il rapporto che un giovane omosessuale o un giovane transessuale svilupperà con il proprio corpo, è totalmente diverso da quello che la cultura etero-patriarcale conosce; il rapporto con gli altri è diverso. E qui ritorna il concetto fondamentale di cultura (o sottocultura), con un proprio linguaggio, dei propri riti di passaggio, esperienze e codici diversi dalla cultura dominante. Perciò anche l’atto del gay pride, dello spogliarsi, di questa presunta “esagerazione” è un atto di libertà, un atto involontariamente ma giustamente politicizzato, poiché esprime la voglia indomabile di una subcultura di riconoscere sé stessa. E cosa c’è di più bello della libertà di auto-esprimersi e riconoscersi?

Rocco Anelli (Maestro in canto lirico, regista e scrittore)

Testi confrontati

Dick Hebdige. Subculture. The Meaning of Style. Londra, Routledge, 1981.

Perché il Pride ha ancora senso, su Il Post, 10 giugno 2018. URL consultato il 12 aprile 2020.

Stuart Hall, Tony Jefferson (a cura di). Resistance Through Rituals. Youth Subcultures in Post-War Britain. Londra, Routledge, 1993.

Condividi su Facebook

Articoli recenti:

Richiesta di ammissione a socio

Modulo da compilare in ogni sua parte.
Una volta inviato riceverete una mail con il modulo pronto
per essere firmato e reinviato (o consegnato direttamente).