Mai quanto oggi risulta estremamente doveroso gridare a gran voce, all’unisono e con risolutezza, che giornate come quelle dell’8 marzo, come quelle del 25 novembre (giornata internazionale contro la violenza sulle donne), o dell’11 febbraio (giornata internazionale della donna nella scienza) hanno profondamente stancato e soprattutto irritano coloro che combattono per la parità di genere e per l’acquisizione dei diritti della donna tutti i sacrosanti giorni, e non due, tre volte all’anno, unicamente in occasione delle ricorrenze, un po’ come tutti quelli che, indistintamente, sono in prima linea a dichiararsi femministi e anti-violenti.
Giornate come queste hanno stancato, nell’esatto momento in cui si vanno a prendere i dati alla mano ed emerge la realtà, la verità viene sbattuta in faccia e si scopre che almeno 200 milioni di donne e ragazze sono state sottoposte nel mondo a mutilazioni genitali e altre 68 milioni saranno destinate alla stessa sorte fino al 2030. Sono numeri raccapriccianti riportati dalla rivista “In-difesa”, a cura di “Terres des hommes”; numeri che inevitabilmente portano a domandarci quali siano gli immediati e futuri rischi per la salute delle vittime di questo aberrante e angosciante sistema, tanto da non conoscere dignità e umanità: rischi altissimi e gravissimi, sia di breve termine, come dolori lancinanti, emorragie, shock, infiammazioni, problemi urinari, sia di lungo termine, quali infezioni genitali, insufficienza renale, lacerazioni, anorgasmia, fino a giungere al contagio e all’aumento del rischio di trasmissione dell’HIV. Da non sottovalutare i devastanti effetti psicologici, quali stress post traumatico e forte depressione.
Per sradicare tale fenomeno, alcune organizzazioni sono ricorse ai cosiddetti “riti alternativi”, una questione abbastanza controversa e aperta. Si tratta di cerimonie di passaggio non cruente, con l’intento di festeggiare l’entrata in età adulta delle ragazze, ma “il problema è che il loro successo viene dichiarato senza una solida evidenza della sua efficacia: non ci sono adeguati dati di comparazione, (..) ciò non nega il fatto che i riti alternativi possano avere un impatto positivo in futuro”. Ecco le parole della rivista mensile “In-difesa”, parole parzialmente incoraggianti, che segnalano comunque il traguardo di alcuni dei 30 Paesi in cui vige tale pratica: i riti alternativi hanno protetto molte ragazze, marcando il passaggio verso la vita adulta senza dover ricorrere alle mutilazioni.
Tuttavia, il mostro non è poi così distante da noi: basti pensare che in Italia sono considerate a rischio tra il 15 e il 24% delle ragazze in età compresa tra 0 e 18 anni, provenienti da Paesi in cui queste usanze sono diffuse. Per affrontare e cercare di abbattere il problema, è stata fissata come pena la reclusione fino a 12 anni. È bene ribadire che ciò non basta e soprattutto che non è solo questo; le mutilazioni genitali femminili fanno parte di uno scenario ben più ampio, che è quello della violenza: ogni 10 minuti un’adolescente viene uccisa, circa 15 milioni di ragazze tra i 15 e i 19 anni sono state costrette a rapporti sessuali o altri tipi di violenza. È agghiacciante e, nel 2020, intollerabile. Un interessantissimo studio, portato avanti da Unicef, ha visto coinvolti quattro Paesi ben differenti tra loro: Italia, Vietnam, Perù e Zimbabwe. L’oggetto di studio era individuare le cause scatenanti della violenza contro i bambini: cosa ne è emerso? Una cruda verità: i comportamenti violenti costituiscono un fenomeno “estremamente fluido e capillare, a volte clamoroso, a volte sottile” ed è evidente che “si tramandino di generazione in generazione (..), la tolleranza si impara proprio durante l’infanzia” e “i dati mostrano come la violenza sia profondamente connessa alla struttura delle relazioni, alle dinamiche di potere all’interno delle famiglie e delle comunità”. Parole importanti quelle che vengono scritte nel giornale “In-difesa”: dobbiamo imparare e far nostra la pratica della tolleranza e soprattutto lottare per abbattere le diversità, termine che, troppo spesso, purtroppo, va di pari passo con “disabilità”.
Bambine e ragazze nate con handicap, secondo uno studio globale dell’UNFPA, sono vittime di violenza di genere, non una, ma dieci volte di più rispetto al resto della popolazione. Inoltre, hanno più probabilità di essere uccise e addirittura di non essere neanche registrate all’anagrafe, con annessa impossibilità di poter accedere a servizi sanitari, sociali ed educativi. Anche nel nostro Paese la situazione appare ogni giorno sempre più allarmante: nel 2018 le vittime di reato sotto i 18 anni sono aumentate del 3% rispetto all’anno precedente e i maltrattamenti in casa sono saliti del +14% e crescono anche i reati di atti sessuali con minorenni e di pornografia minorile. Leggere queste righe può spaventare e far rabbrividire, può far aprire gli occhi a chi ne ha voglia e può far acquisire maggior sensibilità del problema; al contempo può anche lasciare indifferenti e disinteressati, perplessi e frastornati da tutte queste percentuali e questi dati, tuttavia l’essenziale è l’informazione, la conoscenza delle questioni, per far sì che la consapevolezza diventi un efficace strumento per divulgare e sapere: un grande esempio è senz’altro Malala Yousatzai, premio Nobel per la Pace 2014, ancora oggi ricordata per aver pronunciato una delle più grandi e belle frasi del XX secolo: “Un bambino, un insegnante, un libro e una penna possono cambiare il mondo”.
Claudia Filippi