La risposta nonviolenta ai conflitti non si improvvisa

di Raffaele Barbiero, Forlì, 30.03.2022

La principale osservazione fatta quando si introduce il tema della risposta nonviolenta ai conflitti armati è: siete anime belle, ma queste cose funzionano solo in tempo di pace, o non è semplice organizzare una società che si para inerme davanti ai carri armati (dando alla nonviolenza per acquisito il sinonimo di non azione, di nudità di fronte ad un pericolo violento, o di speranza che l’avversario del momento sia di buon cuore).

Facciamo alcune premesse e diamo alcuni numeri per capire un po’ di più la questione.

La difesa armata, oltre che essere praticata da sempre, si insegna anche istituzionalmente da secoli: solo per stare in Italia e solo per citarne alcune, vi ricordiamo l’Accademia militare di Modena attiva dal 1678, la Scuola militare Nunziatella di Napoli dal 1787, la Scuola militare Teulié di Milano dal 1802, la Scuola militare di Cecchignola (Roma) dal 1920 e, per stare al passo con i tempi, anche la Scuola militare aeronautica di Firenze dal 2006.

Per la guerra e per il bilancio della difesa in Italia si spendono annualmente 25 miliardi di euro (escluso il finanziamento delle cosiddette “missioni di pace” o di piani di ammodernamento straordinari delle nostre Forze Armate) e sull’onda della guerra fra Russia (aggressore) e Ucraina (aggredito) il 16 marzo 2022 la Camera dei Deputati ha impegnato il governo ad alzare il bilancio di altri 13 miliardi (più del 50% di aumento, mentre sanità e scuola subiscono ancora tagli).

Nel campo militare gli addetti alle Forze Armate sono più di 90.000 persone, che vengono regolarmente stipendiate, addestrate e assicurate e che, se non vanno direttamente in pensione come militari di carriera, ma lasciano anticipatamente le Forze Armate, possono accedere ad altri corpi dello Stato, perché godono di corsie privilegiate (es. il 30% dei posti della Pubblica Amministrazione sono riservati ai militari in ferma breve o ferma prefissata, D.Lgs. 66/2010 e succ. mod., art. 1014).

La nonviolenza nel mondo, come pratica operativa di soluzione dei conflitti, è stata sistematizzata e codificata in manuali di apprendimento ed azione solo da Gandhi in poi (quindi dagli inizi del ‘900); in Italia non esistono di fatto scuole, accademie, istituti per insegnarla, molto più presenti all’estero invece, specialmente dentro il mondo accademico anglosassone (esemplare è la trilogia di Gene Sharp, “Politica dell’Azione Nonviolenta” volume I -potere e lotta-, II -le tecniche- e III -la dinamica-, edito in Italia da EGA, 1985-1986; il manuale “Handbook for nonviolent Campaigns” edito da War Resister’s International, 2010-2011; “Working with conflict: skills and strategies for action” di Simon Fisher e altri autori , Zed Books, 2000.)

Per la nonviolenza non si spende ufficialmente neanche un euro e nessuno è impiegato, stipendiato, assicurato, addestrato appositamente per questo. Tutto quello che si muove in questo campo o è frutto del volontariato, o è legato all’applicazione del Servizio civile nazionale (purtroppo ultimamente sempre più orientato ad essere una modalità occupazionale aggiuntiva o di “parcheggio”), o deriva da interventi sporadici dello Stato (vedi finanziamento a missioni di pace di associazioni o realtà della società civile) o di Enti Locali e Istituzioni universitarie lungimiranti.

Questa è la fotografia della situazione e in questa situazione, quando ci si trova di fronte alla domanda: “Accetti un’ingiustizia, un’aggressione, una violenza o reagisci ad essa?” l’unica risposta possibile e ammessa (anche a livello di informazione di massa) è quella armata e violenta, perché come dice la canzone di De Andrè: “La guerra di Piero”, se tu non spari per primo finisci a dormire in un campo di grano.

Se si vuole veramente rispondere con le metodologie della nonviolenza, non si deve improvvisare e bisogna subito investire risorse economiche ed umane per rendere concreta questa alternativa, che richiede necessariamente studio, sperimentazione e formazione.

Dove si possono impegnare queste risorse economiche ed umane?

Nel Parlamento Europeo dal 1994 vi è la proposta avanzata da Alexander Langer di istituire i Corpi Civili di Pace Europei, proposta che fu poi approvata con una risoluzione del Parlamento Europeo nel 1999 e a cui venne dato corpo con due studi di fattibilità realizzati nel 2004 e nel 2005 – Feasibility Study on the establishment of a European Civil Peace Corps (ECPC), Final report 29.11.2005, Channel Research-. Da allora però tutto tace e solo la Repubblica di San Marino, con la legge 2.12.2021 nr.194, ha recentemente istituito i Corpi Civili di Pace.

Nel Parlamento Italiano dal 2017 vi è la proposta di legge di iniziativa popolare per istituire il “Dipartimento della difesa civile non armata e nonviolenta” che prevede la creazione di un contingente da impegnare in azioni di pace non governative nelle aree di conflitto, o a rischio conflitto, o nelle aree di emergenza ambientale e che prevede anche la creazione dell’Istituto di ricerca sulla Pace e il Disarmo.

La nonviolenza funziona?

Se guardiamo gli esempi storici, laddove ha operato anche in condizioni di difficoltà (al di là dell’India con Gandhi; Danimarca e Norvegia durante la seconda guerra mondiale; Cecoslovacchia durante la cosiddetta guerra fredda, ecc.), ha funzionato anche se solo parzialmente. Dobbiamo comunque tenere presente che in questi esempi, tranne l’India, nessuno era preparato ed organizzato per farlo e ci si è arrivati solo perché in quel momento era l’unica strategia disponibile, o perché si è ritenuto che lo fosse. D’altronde, per esempio, le guerre che si sono succedute nel mondo dal 1991 in poi hanno forse risolto i problemi emersi dai conflitti?

Per ridurre “il tasso” di violenza nel mondo, cosa si può fare?

A livello mondiale, a partire dalla Guerra nel Golfo del 1991, vi è poi la richiesta di modificare il diritto di veto all’ONU, diritto che, appartenendo a cinque Nazioni, impedisce di fatto l’azione di pace e di mediazione nel conflitto (anche con la modalità armata che l’ONU potrebbe esercitare). Vi è anche la richiesta al nostro Governo di firmare il “Trattato di proibizione delle armi nucleari” (TPNW) dell’ONU, entrato in vigore il 22 gennaio 2021, che invece i nove Paesi che posseggono l’armamento atomico e quelli collegati all’Alleanza Atlantica (NATO) non hanno firmato. L’Europa potrebbe dotarsi di un esercito europeo in grado di intervenire prontamente in situazioni di conflitto con funzioni di “polizia” internazionale (non ci si dota di F35 con possibilità di armamento atomico, se si vuole essere “polizia”). Un esercito europeo con a riferimento un unico ministero della difesa, questo ci darebbe anche maggiore autorevolezza negli scenari internazionali e forse comporterebbe una razionalizzazione delle spese e un loro migliore utilizzo. Potrebbe inoltre essere la leva per aprire un vero ragionamento sugli “Stati Uniti d’Europa” e finalmente dare una spinta decisiva ad avere un’Europa più unita non solo nell’ambito militare. Non vi sono ragioni di sicurezza per aumentare il budget delle spese militari: i Paesi europei spendono in armi circa 216/250 miliardi di euro all’anno, la Russia 65 miliardi (fonte: dati SIPRI, Svezia, anno 2019). Invece noi dipendiamo da gas e petrolio dall’esterno: perché non usare queste risorse che si vogliono spendere per le armi per “spingere” ancora di più sulla transizione ecologica e incominciare a diminuire realmente questa dipendenza? Con giovamento anche per il singolo cittadino perché ogni aumento di gas e di petrolio ricade poi nelle sue tasche. Quali livello di maschio testosterone o, soprattutto, di interessi economici legati all’industria bellica impediscono questa azione?

Il percorso è sicuramente ancora lungo e la nonviolenza, anche se attuata, dovrà coesistere con la risposta armata degli eserciti (ma magari in modalità difensiva e non offensiva -vedi per es. gli F35 che possono portare armamento atomico-), ma se non si investe SUBITO neanche un euro, sicuramente saremo condannati alla violenza di una prossima guerra che verrà e il dibattito si dividerà ancora fra pacifisti pavidi e/o collaborazionisti e guerrafondai, o militaristi da tastiera o da divano. Un dibattito che non solo non mi interessa, ma che non tenta in nessun modo di ridurre la violenza nel mondo, per quello che già oggi potremmo tutti fare.

 

Note:
1) per informazioni e dettagli sul “Dipartimento della difesa civile non armata e nonviolenta” vedi il sito: www.difesacivilenonviolenta.org;
2) Feasibility Study on The European Civil Peace Corps, author Catriona Gourlay, 2004 (www.isis-europe.org; www.berghof-hanbook.net; studio richiesto dal Parlamento
Europeo); Feasibility Study on the establishment of a European Civil Peace Corps (ECPC), Final report, 29.11.2005 (Channel Research COWI-B6S, www.channelresearch.com);
3) ICAN = International Campaign to Abolish Nuclear Weapons, ha vinto il Nobel della Pace nel 2017 (www.icanw.org).

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