Storie di egiziani coraggiosi che si oppongono a un potere oppressivo che sta soffocando il paese. Per le loro idee e il loro impegno subiscono il carcere e sono costretti all’esilio. Itineranti per il mondo, alla ricerca di vita, qualcuno approda in Italia.
Due coperte colorate fatte all’uncinetto. Una matrimoniale e l’altra da singolo. Partite dall’Egitto, sono state appoggiate su letti in Malesia e in Corea del Sud, prima di arrivare a coprire quelli di un paesino in provincia di Roma. Lo stesso viaggio ha fatto la maglietta gialla con la quale Miriam – nome di fantasia della magliaia – è stata arrestata per la prima volta al Cairo nell’aprile del 2016. Insieme a lei quel giorno Fatima, altro nome di fantasia. Giornalista e compagna di battaglia da sempre di Miriam. È anche lei ora in provincia di Roma, dopo lo stesso peregrinare tra Malesia e Corea del Sud. Hanno la stessa passione per la difesa dei diritti umani queste due donne, una con il velo, l’altra a capo scoperto e con due figlie, all’epoca della fuga di 4 e 8 anni. A far parte di questo gruppo è anche Andil (ennesimo nome di fantasia) che alle tappe delle due donne ha aggiunto il Nepal, primo paese dove scappare in fretta e furia. Con pochi spicci e senza nessun visto. Per Anwar – ultimo pseudonimo – la prima tappa della fuga è stata invece la Nigeria. È arrivando qui che ha sottratto la sua vita alla rodata macchina della repressione egiziana che non accettava la sua voce stonata, come del resto quella di tutti questi esuli. Non resta che scappare Dall’estate del golpe del 2013 a opera del generale al-Sisi, oggi presidente, l’esilio è diventato la crescente risposta che centinaia, anzi probabilmente migliaia di egiziani, hanno dato alla loro fame di dignità, libertà e diritti umani. Impacchettando una vita in uno zaino, molto spesso nel giro di un paio di giorni, questi esuli – che in alcuni casi sono scappati dopo un periodo di detenzione, durante il quale hanno subìto anche torture – sono andati a diverse latitudini, seguendo spesso traiettorie e tragitti di quelle idee politiche per le quali sono stati spinti con le spalle al muro all’interno della loro patria. Islamisti più o meno vicini alla Fratellanza musulmana – nuovamente costretta alla clandestinità – hanno raggiunto soprattutto Qatar e Turchia, dove ricevono protezione. Liberali e socialisti sono atterrati invece a Berlino, nella Silicon Valley, a Washington e a New York. Con Londra nel mezzo, meta nella testa di tutti, potenziale terreno di incontro di una società che anche nella diaspora resta polarizzata. Parliamo di giornalisti, sindacalisti, artisti, medici, poeti, ingegneri, attivisti per i diritti umani, politici o aspiranti tali scappati dal loro paese per sfuggire al carcere, a sommari processi di massa, a tentativi di cooptazione e alla censura di chi non voleva che trattassero temi scomodi al regime. Fino alla scorsa primavera, nessuno di questi esuli era approdato nel nostro paese. Miriam, Fatima, Anwar e Andil sono stati tra i primi ad atterrare in Italia, dove hanno chiesto – e in tre casi già ricevuto – asilo politico. In carcere per amore I problemi per loro sono iniziati nella primavera del 2016, quando sono scesi nelle strade del Cairo per opporsi alla decisione del governo di regalare due isolotti nel mezzo del Mar Rosso all’Arabia Saudita, la grande stampella economica dei gattopardi del regime. La cessione di Tiran e Sanafir è stata una mossa inaccettabile per buona parte della società civile che si è opposta, invano, come meglio ha potuto. Il primo dei due arresti per Miriam e Fatima arriva proprio in questo momento, quando finiscono in una cella di un metro e mezzo per due, bagni compresi. Due pacchetti di patatine al giorno, quando va male. Chiusa l’acqua nella toilette, quando va peggio. Giornata nera, quando le visite con i familiari vengono permesse solo attraverso una fessura della cella, da dove Miriam cerca di incrociare lo sguardo delle sue bimbe. «Mamma è in carcere perché ama troppo l’Egitto», dice alla maestra la più grande delle due, mentre lei viene arrestata una seconda volta, a causa delle sue più ampie manifestazioni anti regime. Uscita dal carcere, dove era in custodia cautelare, decide di scappare prima dell’arrivo della sentenza finale. In meno di 48 ore, lascia i quadri che dipinge alla sorella, che per tutto questo tempo le ha tenuto una figlia. Le foto di famiglia le affida invece alla mamma che si è occupata intanto dell’altra bimba. Prende in braccio la più piccola e stringe la mano alla grande. Con loro fugge anche Fatima. Hanno il cuore in gola e la paura di essere arrestate in aeroporto, qualora il loro nome fosse già finito su una lista nera. Cancellano ogni traccia del loro attivismo dai cellulari. Non portano con sé neanche una foto e alla fine tutto invece fila liscio fino all’atterraggio in Malesia, dove poco dopo vengono raggiunte da Andil, altro compagno di battaglia che in carcere ha rischiato di perdere la vita a causa di una patologia che non gli hanno permesso di curare. «Una volta fuori, gli uomini dei servizi mi sono venuti a cercare a casa. Davanti a me non avevo tante scelte – confessa Andil con un inglese perfetto e la sua solita ironia che adesso lascia però spazio alla tristezza –. Se non fossi scappato sarei stato nuovamente arrestato. Avrei scontato la prima pena e poi, come spesso accade, me ne avrebbero appioppata un’altra per comportamento interno al carcere». Simile sorte sarebbe spettata ad Anwar, ai vertici di uno dei principali movimenti organizzatori della rivoluzione (del 2011) di Piazza Tahrir, il 6 aprile: «La cella era così piccola che si facevano i turni per dormire a terra: 6 ore un gruppo in piedi con le spalle alle pareti per fare riposare gli altri e poi viceversa. Quando capisci che non c’è più posto per te nel tuo paese ti poni solo una domanda: dove scappo? Solo quando sei ormai esule – nel mio caso in Nigeria – ti poni una seconda domanda: che cosa faccio? È in questo momento che cerchi di pianificare la tua vita, non prima, quando hai solo pensato a come metterla in salvo. Non avevo i documenti giusti per viaggiare e sono stato arrestato due volte, l’ultima al mio arrivo in Italia – ammette Anwar, webmaster che ha la grande capacità, tipica degli egiziani, di raccontare un dramma, farcendolo di battute –. Quando i poliziotti mi hanno detto che era tutto un errore e che potevo andarmene ho chiesto di accompagnarmi prima a mangiare un panino, pensavo solo alla pancia che brontolava», confessa timidamente, tamburellando le mani sulle gambe. Da Seul a Roma La tappa in Corea è per tutti la più difficile. Il razzismo, l’islamofobia, ma soprattutto il controllo dei servizi segreti locali, in contatto con il governo egiziano, visto anche il crescente giro di affari tra il Cairo e Seul. Miriam e Fatima non riescono neanche a rinnovare il permesso di soggiorno e per tutti è impossibile depositare una domanda di asilo. E poi arrivano le martellanti chiamate inquisitorie del signor Musa, un coreano che parla perfettamente il dialetto egiziano e che è già famoso tra i circa 500/1000 simpatizzanti della Fratellanza musulmana arrivati a Seul e dintorni. Non resta che fare nuovamente la valigia alla ricerca di un posto più sicuro. L’apripista, ancora una volta, è Miriam. Parte da sola, una bimba per ogni mano. Seguono Fatima, Anwar e Andil. È lui questa volta a portare le coperte a destinazione. Le avvolge in quella bandiera egiziana che ha appeso in tutte le camere dove è stato dal giorno in cui ha lasciato il Cairo. «Non c’era tempo per mettere altro nello zaino – racconta Andil –. Nei novanta minuti in taxi da casa all’aeroporto ho fotografato tutto con gli occhi. Anche la mia infanzia. Anche gli odori. Questi scatti sono il pane quotidiano della mia nostalgia».
LEGGE 180 MUSERUOLA AI MEDIA
Anno particolarmente duro, il 2019, per i giornalisti egiziani: 26 arresti e oltre 500 blocchi di siti web, tra i quali anche testate giornalistiche. Novità preoccupanti anche dal mondo del mercato mediatico, visto che l’esercito – che già da tempo controlla le emittenti statali – ha acquisito quote dei media privati. E poi la nuova legge sui media, promulgata nel 2018, ma completata solo lo scorso febbraio da una serie di regolamenti esecutivi. La legge numero 180 sulla stampa – che ha dato vita anche al Consiglio supremo per il regolamento dei media, Csrm – vieta a ogni testata, anche virtuale, di pubblicare contenuti che violano la Costituzione egiziana, l’etica professionale e minacciano l’ordine pubblico o la morale. Utilizzando un linguaggio appositamente vago, le nuove norme vietano di andare contro la legge (che in Egitto è nei fatti scritta dal potere esecutivo e solo ratificata dal legislativo), incitare alla discriminazione, alla violenza, al razzismo, all’odio e all’estremismo. Parola, quest’ultima, usata dal regime egiziano per indicare non solo le frange più radicali, ma l’intera pletora dell’opposizione al governo militare, sia quella di matrice islamista, radicale e non, che quella più laica. Acchiappando al volo lo slogan della lotta alle fake news, la legge autorizza inoltre la censura di notizie circolate non solo su testate ufficiali (che in Egitto sono costrette a essere leali al regime per sopravvivere), ma anche su siti personali e sugli account social con più di 5mila follower, ovvero quei canali che hanno cercato di veicolare un discorso alternativo a quello ufficiale. Ai giornalisti viene inoltre impedito di raccogliere donazioni per portare avanti il loro lavoro. Le testate cartacee sono poi obbligate ad archiviare e condividere con il Csrm quanto pubblicato nei 12 mesi precedenti. Ai siti è imposto invece di comunicare sempre al Consiglio supremo il luogo dove tengono copia del loro server, indirizzo che non può essere modificato senza approvazione del Csrm. I giornali cartacei possono essere stampati solo da stamperie con apposita licenza e registrate al Consiglio supremo, che deve ricevere venti copie di ogni edizione. Due mesi dopo l’entrata in vigore della legge, il Csrm si è dato due settimane di tempo, estese poi a quattro, per raccogliere le nuove domande di licenza in linea con la legge dell’agosto precedente. Registrare una nuova testata è un percorso a ostacoli che ha scoraggiato i tanti citizen journalists emersi dopo la rivoluzione di piazza Tahrir e quanti aspiravano coraggiosamente a dare vita a media indipendenti. Oltre a una serie di adempimenti amministrativi, chi ha voluto registrate una nuova testata on line ha dovuto pagare 50mila sterline egiziane (circa 2800 euro), dichiarando la proprietà e lo scopo editoriale. Una testata, che era riuscita nell’impresa, è stata bloccata dopo appena nove ore di vita. Pretendeva interessarsi di diritti umani. (A.M.S.)
di Azzurra Meringolo Scarfoglio
NIGRIZIA NUMERO 5 – MAGGIO 2020 EGITTO – ESULI DEL REGIME