Prima della legge n°180 del 1978 era in vigore la legge n° 36 del 1904, per la quale venivano internate nei manicomi le persone “affette per qualunque causa da alienazione mentale”. Dopo un periodo di osservazione, i pazienti potevano essere ricoverati definitivamente, perdevano i diritti civili ed erano iscritti nel casellario penale. I manicomi svolgevano, di fatto, un ruolo di controllo sociale dei soggetti deviati, dai malati di mente ai piccoli delinquenti, fino alle prostitute, ai sovversivi o agli omosessuali.
Cos’era il manicomio? Prima della legge Basaglia, non era semplicemente un ospedale, ma un luogo in cui “il matto” veniva rinchiuso, isolato, emarginato dalla società dei sani. Muri e inferriate rappresentavano un ostacolo insormontabile al recupero e al reinserimento sociale, spesso nemmeno contemplati, e più che a impedire al malato di allontanarsi sembravano svolgere la funzione opposta, ovvero quella di “proteggere” il mondo esterno dalla malattia che dentro quelle barriere era racchiusa.
Il manicomio diventava una parte integrante del tessuto urbano in cui era racchiuso. Spesso, ne diventava un elemento caratterizzante. Non solo perché il numero dei degenti, migliaia e migliaia, arrivò in taluni casi a sfiorare quasi quello degli abitanti della città in cui si trovava. Ma anche perché centinaia e centinaia di medici e infermieri vivevano e ruotavano attorno a questo gigantesco complesso. E poi, nonostante le strutture manicomiali fossero quasi sempre state pensate per essere il più autosufficienti possibili, l’ospedale aveva bisogno di cercare fuori dalle sue mura le risorse e i beni di cui aveva bisogno. E il manicomio, dunque, diventava anche fonte di reddito, occasione di lavoro per tanti.
Detto ciò, in occasione del quarantesimo anniversario della Legge 180/1978, nota anche come “Legge Basaglia” è la legge in tema di “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”. A presentarla in Parlamento fu Bruno Orsini, psichiatra e politico della Democrazia Cristiana. Da sempre però è associata a Franco Basaglia, psichiatra veneziano e principale esponente del movimento anti-istituzionale che quarant’anni fa, il 13 maggio 1978, culminò nell’approvazione della legge che ha avviato la rivoluzione degli istituti psichiatrici italiani, stabilendo la chiusura dei manicomi. Una riforma che ha restituito dignità e una dimensione sociale a migliaia di persone fino ad allora confinate in strutture ospedaliere con centinaia (in alcuni casi migliaia) di posti letto, dominate da logiche repressive molto simili a quelle del carcere.
La legge Basaglia è finora l’unico esempio in Europa di legislazione che ha disposto la chiusura completa degli ospedali psichiatrici e la sostituzione del sistema ospedaliero con un sistema di servizi basati sul territorio.
Questa riforma ha cambiato radicalmente la psichiatria italiana, portandola nella modernità. Gli ospedali psichiatrici erano assolutamente antiterapeutici: enormi, con due o tremila persone, le terapie mirate erano impossibili. Lo psichiatra, fino a 40 anni fa, doveva semplicemente custodire il malato ritenuto pericoloso socialmente: una concezione ottocentesca di mera passivizzazione della persona. In situazioni spesso di degrado profondo, incompatibile con il XX secolo, descritte da tanti memoriali e ricordi. Oggi è tutto cambiato: Il ricovero esiste ancora, ma in unità operative più piccole all’interno degli ospedali, e non più con il concetto di custodia giudiziaria, ma seguendo le esigenze terapeutiche del paziente.
E anche se non c’è più nessun ospedale psichiatrico con reti e filo spinato dove poter rinchiudere i “malati”, ma ci sono associazioni e cooperative sociali che si occupano di gestire tempo libero, inserimenti lavorativi, case famiglia o gruppi appartamento per tutti quelli che sono fuori e non vivono per conto proprio (che sono la maggioranza), esiste ancora il rischio di nuove forme di esclusione, meno evidenti e più nascoste, ma con identici meccanismi di privazione dei diritti della persona.
Perché occuparsi di manicomi a 40 anni dalla legge Basaglia?
I manicomi in Italia sono storia del passato, ma la segregazione del “diverso”, del matto, fa ancora parte del nostro presente. Non si tratta di “cose” da rinchiudere, da sedare o da legare, ma di persone fragili che hanno bisogno che qualcuno li aiuti a ristabilire l’ordine delle cose, restituendo coraggio a chi ha perso il filo della propria esistenza. E’ stata questa la grande rivoluzione di Basaglia: cambiare la semantica della malattia grazie a un nuovo metodo terapeutico.
Il problema è che, quando la legge 180 è stata approvata, i “pazzi” si sono trovati nudi in un mondo che non conoscevano e soprattutto all’interno di una società culturalmente non pronta ad accoglierli. Insegnare alla società ad approcciare il disagio psichico è l’utopia di Basaglia visto che, al momento, la malattia mentale viene vista ancora con diffidenza e paura perché non viene compresa.
La chiusura dei manicomi, 40 anni fa, è stata la prima pedina di un dominio socio- culturale non ancora finito, che sposta le tessere, le responsabilità e le possibili soluzioni tra le istituzioni, la famiglia, gli assistenti sociali e i malati; ma finché la terapia non verrà considerata a livello olistico e inclusiva di tutte le sfere dell’essere umano, il malato mentale sarà sempre considerato un folle, un pazzo o nel migliore dei casi un poeta.
Ricordiamocelo che : “il manicomio non serve a curare la malattia mentale, ma solo a distruggere il paziente”(Cit. Franco Basaglia).
Tonia Petruzzi