“Silvia Romano è stata liberata! Silvia, ti aspettiamo in Italia!” ecco il tweet del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, scritto qualche giorno fa intorno alle ore 17. Finalmente si conclude, con un inaspettato lieto fine, la vicenda iniziata ben oltre un anno fa: era il lontano 20 novembre 2018, quando si diffuse la notizia del rapimento dell’allora ventitreenne, cooperante in Kenya con la onlus “Africa Milele”. Era andata lì per occuparsi soprattutto di infanzia abbandonata, poi è stata rapita da una banda armata di uomini somali e solo 535 giorni dopo, grazie all’arduo lavoro dell’intelligence italiana, in collaborazione con i servizi segreti della Turchia, la ragazza è riuscita ad atterrare all’aeroporto di Ciampino.
Probabilmente, se fossimo in un altro paese europeo, se fossimo in un’altra porzione del globo, questa storia avrebbe avuto fine nell’esatto momento in cui Silvia stessa, come prime dichiarazioni, ha affermato: “Sono felicissima di essere tornata dopo tanto tempo. Sto bene per fortuna. Sto bene, sia fisicamente che mentalmente”, accompagnato da un sorriso a trentadue denti. Invece no, qui in Italia le polemiche sono all’ordine del giorno, sono sempre dietro l’angolo, ma soprattutto sono a non finire, ripetute in tutte le salse, prolungate fino allo sfinimento, talvolta prive di contenuto.
Sia chiaro, il dubbio che la milanese non stia effettivamente bene come dice c’è ed è più che lecito, altrettanto lecito è voler sapere come si siano svolti i fatti, quali siano state le dinamiche dell’accaduto, che cosa sia realmente successo nell’arco di questi quasi due anni (non a caso è stata sottoposta a un primo interrogatorio di circa quattro ore da parte della Farnesina). A tutto però c’è un limite. Se Aisha, anziché con il capo coperto e un abito tradizionale somalo, fosse scesa come Silvia, indossando una t-shirt e un paio di jeans, qualcuno si sarebbe mai permesso di dire che non era il caso di pagare il riscatto? Qualcuno si sarebbe mai azzardato a dire che sarebbe stato meglio se fosse rimasta lì dove stava? È incredibile come l’intera nazione, attraverso le piattaforme social, abbia dimostrato, in un primo momento, piena solidarietà e vicinanza alla ex rapita; tantissimi sono stati i messaggi di felicità, ma solo prima che scendesse dall’aereo. Appena si è sparsa la notizia della sua conversione, da lei stessa confermata come “consapevole”, tutto è cambiato, il web ha iniziato a riempirsi di commenti gravemente fuori luogo, sfornando dei parallelismi storici abominevoli, colmi di ignoranza e volgarità.
Il papà, prima ancora di poter riabbracciare sua figlia, aveva confessato ai giornalisti: “Lasciatemi respirare, devo reggere l’urto”. Forse non ci sarebbe nient’altro da aggiungere, in cinque parole è stato detto tutto quello che c’era da dire. Lasciamo respirare l’intera famiglia, in primis la giovane sequestrata, diamo tempo al tempo, non è sempre necessario fare polemica subito, ancor prima di conoscere i fatti in modo dettagliato.
A maggior ragione non è necessario fare polemica in un momento storico come questo, già difficile e crudele di per sé. La liberazione di una nostra concittadina dovrebbe soltanto riempirci il cuore di gioia e, almeno per cinque minuti, distrarci dalla difficile realtà che tutti i giorni siamo costretti a vivere, tra bollette da pagare, bonus economici che tardano ad arrivare, incertezze nel campo del lavoro, timore di essere degli asintomatici positivi. Dovrebbe farci respirare quella leggerezza che, purtroppo, da qualche mese facciamo fatica a provare. Che importanza ha che sia Silvia, Aisha o chicchessia; che importanza ha che creda nel tuo stesso Dio o in un altro, l’importante è il benessere della ragazza. E per una volta forse potremmo vedere quel famoso bicchiere mezzo pieno e non completamente vuoto.
Claudia Filippi
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