L’esodo dei Rohingya

I Rohingya, minoranza etnica di fede musulmana originaria dello Stato di Rakhine, nell’ovest della Birmania, sono discriminati da un Paese a maggioranza buddista che non li riconosce come suoi cittadini. Viaggiano stipati su barconi di legno, in fuga dalle persecuzioni che subiscono in Birmania.

Nel 2012, durante gli scontri con la popolazione buddista, ci sono stati 280 morti e 140mila persone, soprattutto Rohingya,  sono state costrette a lasciare le loro case e a vivere in campi profughi. Il governo birmano non riconosce la cittadinanza ai Rohingya, privandoli dei loro diritti fondamentali. Non possono muoversi liberamente nel Paese, non possono avere più di due figli né godere del diritto alla proprietà privata. Vivono in campi sovraffollati fuori la città di Sittwe, capoluogo del Rakhine, privati dell’accesso alle cure mediche e all’istruzione. Senza documenti o prospettive di lavoro, sopravvivono nell’indigenza. Condizioni che hanno innescato il loro esodo di massa.

Dal 25 agosto scorso sono circa 600 000 i rifugiati arrivati in Bangladesh in seguito alla nuova ondata di violenze, uno dei più grandi esodi di profughi dalla seconda guerra mondiale. Sono in migliaia, che viaggiano per giorni, tutti in fila a piedi in code chilometriche, che si snodano lungo strette strisce di terra. In molti, sono morti nel passaggio tra i due Paesi a causa di mine poste al confine.

Il Bangladesh, che riveste un ruolo fondamentale, sta collaborando in molti modi per quanto sia un Paese che già di per sé ha delle difficoltà strutturali. Certo è che mezzo milioni di profughi sono numeri che questo Paese non può reggere. I campi profughi hanno ormai raggiunto il limite massimo di capienza e sono in migliaia quelli che combattono per trovare un posto.

È necessario che ci sia subito uno sforzo massiccio da parte di tutta la comunità internazionale per risolvere la crisi in corso. Ma non solo, c’è bisogno anche di uno sforzo nel risanare e valorizzare le risorse del Paese, soprattutto attraverso investimenti nella sanità, nell’istruzione e nel cementare le istituzioni statali che ad oggi sono fragilissime, e in molte parti del Paese addirittura assenti. In caso contrario, la crisi di oggi sarà solo la prima di una lunga serie.

Bianca Panichi

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