Africa: 60 anni dalla fine del colonialismo: dopo quella giuridica e in parte quella economica, ci sono le condizioni per una vera autonomia politica per i paesi dell’area subsahariana. Grazie, in particolare, a una nuova generazione più consapevole dell’aumento del potere negoziale che ha oggi l’Africa.
In questo particolare periodo storico, l’Africa viene tristemente alla ribalta per via dell’esodo dei suoi figli. L’interconnessione con il continente viene letta solo in questa chiave, tralasciando l’interdipendenza dal punto di vista economico e soprattutto dal punto di vista demografico. La ricorrenza del 60° anniversario delle indipendenze, l’anno dell’Africa, sembra sfuggire a molti, vittima anch’esso di una narrazione semplicistica e di una visione ancora troppo eurocentrica. L’economia liberista ha tanti demeriti: la produzione di disuguaglianze economiche (l’accesso alle risorse), di disuguaglianze sociali (vera causa dell’esodo migratorio) e di una sistematica discriminazione economica localizzata (il sud del mondo). Ma ha il merito di aver contribuito alla creazione di un villaggio globale, una comunità interdipendente. Alla base della sua vocazione vi era il principio per cui le relazioni tra gli stati si basassero sulla differenziazione della loro dotazione di risorse: terra, lavoro e capitale. Ogni stato doveva partecipare al commercio globale in relazione al suo vantaggio relativo. In questa prospettiva può essere letto anche il processo che accelerò il passaggio dal viaggio esplorativo in Africa, a missioni di evangelizzazione e che culminerà in politiche di annientamento culturale, che non hanno eguali nella storia dell’umanità, oltre a una vera subordinazione valoriale su base etnica. L’imperativo divenne accaparrarsi la proprietà delle risorse economiche delle colonie, al fine di aumentare il vantaggio relativo nelle relazioni del commercio internazionale. Le contraddizioni non mancarono a esplicitarsi a favore di una nuova prospettiva economica, fondata su assunti marxisti, che difatti animarono molti processi di indipendenza.
Dopo la Seconda guerra mondiale la vittoria alleata si presentò agli occhi degli africani con modelli tra loro alternativi, ma entrambi antagonisti al colonialismo. Tuttavia le nuove organizzazioni intergovernative, istituite per sostenere il paradigma economico liberista, erano figlie della inedita competizione Est-Ovest, relegando a ruolo di appendice l’Africa. Il confronto tra i due blocchi, durante la Guerra fredda, sollecitò l’emergere di una terza posizione, quella celebrata alla conferenza di Bandung del 1955, nella quale 29 stati asiatici e africani sottoscrissero una dichiarazione a favore del superamento del colonialismo, per il rispetto del principio di autodeterminazione dei popoli. Per quanto una certa retorica democratica statunitense rappresentasse un modello avvincente, l’opportunità di allearsi con le vecchie colonie e alcune scelte di politica internazionale – vedi la condanna formale non seguita da un intervento vigoroso nella crisi di Suez del 1956 da parte degli Usa, che vide l’Egitto del comandante Nasser opporsi all’indebita occupazione da parte di Gran Bretagna, Francia e Israele – creò una vera e propria diffidenza nell’abbracciare l’ideologia capitalista democratica statunitense a favore, invece, di quella comunista. L’alternativa marxista sembrava idealmente più aderente alle istanze indipendentiste, trovando da subito abili interpreti come Senghor in Senegal, o N’Krumah in Ghana. Modello valido sino alla caduta del muro di Berlino. L’ingresso nel 2001 della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc), dopo 15 anni di negoziati, è l’altra svolta nel senso di indipendenza economica del continente e riaccende un rinnovato protagonismo economico dopo i sussulti del periodo postcoloniale.
L’indipendenza dei paesi africani può essere distinta in diverse categorie: l’indipendenza giuridica, quella economica e quella politica. Dagli anni ’60 assistiamo a una vera e propria indipendenza dal punto di vista giuridico. Ma non possiamo dire altrettanto dal punto di vista economico e politico. L’evoluzione dello “stato nazione” in Africa non è avvenuta in maniera lineare e naturale. La lotta per la libertà politica, per l’affermazione e per l’autonomia da parte degli stati di nuova costituzione, avvenne lungo un tracciato di episodi, di condizionamenti e di conflitti che trovarono tra i loro fattori scatenanti principali anche il bipolarismo post-guerra. La prima questione che si pone è relativa alla questione della forma di stato. In considerazione del periodo storico e degli equilibri geopolitici della Guerra fredda, il primo vizio originale che emerge riguarda il fatto che la forma di stato scelto sia stato quella della repubblica, ad eccezione di alcuni paesi del Maghreb.
Di fronte alla complessità nella difficile gestione della transizione, si procedette alla creazione di sovrastrutture e anziché affrontare l’annosa questione delle eredità coloniali – una delle quali era rappresentata dalla non corrispondenza tra popolo e nazione, presupposto necessario per gli stati moderni, essendo i confini territoriali disegnati arbitrariamente dai colonizzatori – si optò per un’accelerazione della costituzione delle nazioni. Un carissimo amico del Burkina Faso mi racconta come i suoi genitori, entrambi burkinabè, parlino tra loro in francese, lingua ufficiale ed amministrativa, perché, pur essendo concittadini, sono espressione di una pluralità culturale e linguistica diversa. Dalle indipendenze seguì una serie di rivendicazioni etniche che, non trovando solide strutture che le canalizzassero, sfociarono in veri e propri conflitti armati.
Un altro termometro per misurare le indipendenze, a 60 anni dal loro decorso, può essere la chiave di lettura generazionale. In quanto soggetti alla politica dei mandati della Società delle Nazioni Unite, che sul saldo principio dell’autodeterminazione dei popoli condannava formalmente il colonialismo, auspicando una transizione verso l’istituzione democratica, molte colonie si attrezzarono per affrontare l’inevitabile tramonto del sistema coloniale cercando di massimizzare i privilegi. Lungo l’intero arco che ci porta a festeggiare i 60 anni delle indipendenze, sono state coinvolte tre generazioni di uomini. La prima direttamente implicata nella decolonizzazione e nella transizione democratica: quando dovettero affrontare la complessità delle singole situazioni, molti da eroi del nazionalismo si trasformarono in dittatori, a esclusione di rare eccezioni. La seconda generazione coincide con quella classe politica, spesso espressione di movimenti militari e paramilitari, formatisi durante i processi di istituzionalizzazione, ai quali non può essere attribuito alcun legame con i coloni, intesi come stati coloniali e che, in quanto espressioni dei localismi regionali – i nuovi nazionalismi – furono fagocitati da interessi di società private disposti a finanziarli, in cambio di garanzie circa l’approvvigionamento dell’enorme ricchezza locale. Il protagonismo di questi ultimi si intensificherà soprattutto negli anni ’80 e ’90, il ventennio che vede il maggior numero di guerre nel continente. Dapprima destabilizzarono gli equilibri politici e istituzionali, ma, involontariamente, crearono i presupposti per l’indipendenza economica, in quanto sradicarono le posizioni di vantaggio di alcuni favorendo ipso facto l’allargamento del mercato. Anche se ancora ispirato da cinici interessi. Con il cambio degli equilibri dei due blocchi della Guerra fredda, negli anni ’90 l’interesse globale si sposta in Medioriente, relegando nuovamente l’affaire Africa a semplice appendice. Come anticipato, l’attivismo della Cina e degli altri stakeholder, a partire dagli anni 2000, e una nuova generazione più consapevole dell’aumento del potere negoziale che ha oggi l’Africa, sono fattori importanti per raggiungere la terza indipendenza: l’autonomia politica. Autonomia che dovrà passare, necessariamente, anche dalla mitigazione della eterogeneità ancora presente a favore della costruzione di un reale interesse comunitario. Oggi la prospettiva della stabilizzazione degli stati, accompagnata da una lenta ma costante crescita economica, fanno presagire che l’anno dell’Africa sia proprio questo. A noi cogliere i segni della storia.
I PAESI INDIPENDENTI Diciassette paesi africani indipendenti da 60 anni. Tredici colonie erano sotto l’amministrazione francese: Benin, Repubblica Centrafricana, Congo, Costa d’Avorio, Gabon, Burkina Faso, Madagascar, Mali, Mauritania, Niger, Ciad, Togo e Senegal. La lista comprende anche l’ex Congo Belga (oggi Repubblica democratica del Congo), la Nigeria e due paesi che hanno conosciuto la doppia colonizzazione: la Somalia, con una parte sotto il controllo britannico (Somaliland) e l’altra sotto il controllo dell’Italia, e il Camerun, con l’ovest colonizzato da Londra e l’est da Parigi. Sul piano generale, l’ottenimento delle indipendenze appare come il risultato di un processo inevitabile. Nel 1960 la decolonizzazione era in cammino da più di un decennio, sia nel mondo che nel continente africano. Le modalità e le circostanze dell’accesso all’indipendenza furono diverse da un paese all’altro. Sul piano generale, le élite erano meglio preparate nelle ex colonie francesi e nella Nigeria, che era sotto il controllo britannico. Il 23 giugno 1956, il parlamento francese aveva votato la legge quadro Defferre, che stabiliva la scomparsa dell’Africa Occidentale Francese e dell’Africa Equatoriale Francese, accordando l’autonomia a quei territori. Ma la diplomazia e la difesa continuavano a dipendere da Parigi.
di Michel Rukundo – NIGRIZIA