La decisione di autorizzare lo sbarco di naufraghi soccorsi in mare non è un “atto politico”

Si avvicinano le fasi cruciali del processo Open Arms a Palermo, nel quale si contesta al senatore Matteo Salvini la mancata autorizzazione allo sbarco nel porto di Lampedusa dei naufraghi soccorsi nell’agosto del 2019 dalla nave battente bandiera spagnola Open Arms. Un processo che è possibile ricostruire integralmente dalle registrazioni di Radio Radicale, nel quale sono stati discussi molteplici profili di responsabilità, connessi alle attività di ricerca e soccorso in mare, ma che si è incentrato soprattutto sulla controversa definizione di “atto politico”, dunque insindacabile dall’autorità giudiziaria, della scelta del ministro che, dopo una decisione del TAR Lazio che sospendeva un precedente divieto di ingresso nelle acque territoriali, non autorizzava lo sbarco a terra dei naufraghi quando la nave si trovava in acque italiane, a poche centinaia di metri dal porto di Lampedusa, in condizioni meteo che, anche secondo la Guardia costiera, come è emerso durante il processo, impedivano il raggiungimento di altri porti italiani.
Già nel 2020, con la sentenza n.6626 sul caso Rackete, la Corte di Cassazione aveva chiaramente indicato i limiti dei divieti di sbarco imposti a quel tempo in base al cd. Decreto sicurezza “bis” n.53 del 2019. In particolare la Corte osservava che “La verosimile esistenza della causa di giustificazione è stata congruamente argomentata. In questo ambito il provvedimento ripercorre, necessariamente, le fonti internazionali (Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare, SOLAS- Safety of Life at Sea, Londra, 1974, ratificata dall’Italia con la legge n. 313 del 1980; Convenzione SAR di Amburgo del 1979, resa esecutiva dall’Italia con la legge n. 147 del 1989 e alla quale è stata data attuazione con il D.P.R. n. 662 del 1994; Convenzione UNCLOS delle Nazioni Unite sul diritto del mare, stipulata a Montego Bay nel 1982 e recepita dall’Italia dalla legge n. 689 del 1994), sia allo scopo di individuare il fondamento giuridico della causa di giustificazione, identificata nell’adempimento del dovere di soccorso in mare, sia al fine di delinearne il contenuto idoneo a scriminare la condotta di resistenza”.
Continua la stessa sentenza, “Proprio le citate fonti pattizie in tema di soccorso in mare e prima ancora l’obbligo consuetudinario di soccorso in mare, norma di diritto internazionale generalmente riconosciuta e pertanto direttamente applicabile nell’ordinamento interno, in forza del disposto di cui all’art. 10 comma 1 Cost. – tutte disposizioni ben conosciute da coloro che operano il salvataggio in mare, ma anche da coloro che, per servizio, operano in mare svolgendo attività di polizia marittima – sono il parametro normativo che ha guidato il Giudice nella valutazione dell’operato dei militari per escludere la ragionevolezza dell’arresto della Rackete, in una situazione nella quale la citata causa di giustificazione era più che “verosimilmente” esistente. Né si potrebbe ritenere, come argomenta il ricorrente, che l’attività di salvataggio dei naufraghi si fosse esaurita con il loro recupero a bordo della nave. L’obbligo di prestare soccorso dettato dalla convenzione internazionale SAR di Amburgo, non si esaurisce nell’atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare, ma comporta l’obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro (c.d. “place of safety”). E ancora, secondo la Cassazione,” Non può quindi essere qualificato “luogo sicuro”, per evidente mancanza di tale presupposto, una nave in mare che, oltre ad essere in balia degli eventi metereologici avversi, non consente il rispetto dei diritti fondamentali delle persone soccorse. Né può considerarsi compiuto il dovere di soccorso con il salvataggio dei naufraghi sulla nave e con la loro permanenza su di essa, poiché tali persone hanno diritto a presentare domanda di protezione internazionale secondo la Convenzione di Ginevra del 1951, operazione che non può certo essere effettuata sulla nave“.
La giurisprudenza della Corte di Cassazione, a Sezioni unite, individua nel novembre 2023, con grande precisione, la portata ed i limiti della nozione di “atto politico” sottratto al controllo degli organi giurisdizionali. Secondo questa sentenza, “Ai fini della giustiziabilità dell’atto, accanto ai caratteri del provvedimento, occorre guardare alla dimensione sostanziale della legalità, la quale richiede che l’atto di esercizio del potere sia suscettibile di essere confrontato con le norme che lo disciplinano. Va inoltre valutata la presenza di interessi giuridicamente rilevanti: se mancano situazioni qualificate differenziate o si è in presenza di interessi di mero fatto, allora è possibile parlare di atto non sindacabile proprio, perché non tocca direttamente situazioni giuridiche. Nel difetto di un interesse privato direttamente offeso manca la materia del giudizio, manca la persona cui possa riconoscersi l’azione per promuoverlo. La chiave di volta ai fini del giudizio di insindacabilità di un atto del potere pubblico è costituita, in generale, dalla mancanza di specifici parametri giuridici protesi a riconoscere posizioni di vantaggio meritevoli di protezione. Viene in rilievo, infatti, l’art. 101 Cost., comma 2, il quale, nel fissare il principio della soggezione dei giudici soltanto alla legge, individua nella legge il fondamento e la misura del sindacato ad opera del giudice. Ciò significa che, in assenza di un parametro giuridico alla politica, il sindacato deve arrestarsi: per statuto costituzionale, il giudice non può essere chiamato a fare politica in luogo degli organi di rappresentanza. Lo preclude il principio ordinamentale della separazione tra i poteri. La “zona franca” è il riflesso della presenza di una politicità dell’atto che non si presta ad una rilettura giuridica.
L’insindacabilità è il predicato di un atto non sottoposto dall’ordinamento a vincoli di natura giuridica. Ove, viceversa, vi sia predeterminazione dei canoni di legalità, quello stesso sindacato si appalesa doveroso. Il giudice, quale che sia il plesso di appartenenza, è non solo rispettoso degli ambiti di attribuzione dei poteri, ma anche, sempre per statuto costituzionale, garante della legalità, e quindi non arretra là dove gli spazi della discrezionalità politica siano circoscritti da vincoli posti da norme che segnano i confini o indirizzano l’esercizio dell’azione di governo. La giustiziabilità dell’atto dipende dalla regolamentazione sostanziale del potere. Se dunque esiste una norma che disciplina il potere, che ne stabilisce limiti o regole di esercizio, per quella parte l’atto è suscettibile di sindacato. Si tratta di un approccio coerente con gli approdi della giurisprudenza costituzionale. Con la sentenza n. 81 del 2012, la Corte costituzionale ha stabilito che gli spazi della discrezionalità politica trovano i loro confini nei principi di natura giuridica posti dall’ordinamento tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo; e quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto. Nella misura in cui l’ambito di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che connota un’azione di governo, è circoscritto da vincoli posti da norme giuridiche che ne segnano i confini o ne indirizzano l’esercizio, il rispetto di tali vincoli costituisce un requisito di legittimità e di validità dell’atto, sindacabile nelle sedi appropriate. Il principio è stato ribadito nella successiva sentenza n. 52 del 2016, con la quale la Corte costituzionale ha sottolineato che la scelta di avviare le trattative con le confessioni religiose non è oggetto di alcuna disciplina specifica che rechi una puntuale regolazione del procedimento di stipulazione delle intese e che, in mancanza di essa, la giustiziabilità del diniego opposto all’avvio delle trattative costituirebbe un elemento dissonante. Da questa premessa la Corte ha fatto discendere l’insussistenza della configurabilità nel nostro ordinamento di una pretesa giustiziabile all’avvio delle trattative, risolvendo il conflitto in favore del Governo e affermando l’insindacabilità del diniego. Questa prospettiva metodologica informa gli svolgimenti della giurisprudenza, del Consiglio di Stato e di questa Corte regolatrice.“
L’avvicinarsi dell’udienza nella quale la Procura di Palermo esporrà le sue conclusioni nel procedimento penale in corso nei confronti del senatore Salvini ha riacceso la polemica intorno al ruolo della magistratura, piuttosto che un serio dibattito in ordine alle responsabilità di governo nei soccorsi in mare. Si tratta di una materia sulla quale, nel corso degli anni, prima e dopo il caso Rackete, si sono sommati interventi giurisprudenziali che hanno portato alla archiviazione di quasi tutti i processi penali intentati contro le ONG, accusate ingiustamente di “favorire l’immigrazione clandestina” o di violare obblighi di legge o ordini imposti dalle autorità politiche e amministrative. Più recentemente, numerose decisioni giurisdizionali hanno sospeso provvedimenti di fermo amministrativo adottati nei confronti delle navi umanitarie, con la motivazione che con le loro attività di soccorso avrebbero creato situazioni di pericolo, o non avrebbero obbedito agli ordini della sedicente Guardia costiera libica. Argomentazioni che, nel rinvio alla competenza degli stati responsabili per le regioni di ricerca e soccorso (SAR) in acque internazionali, costituiscono la base del Decreto Piantedosi
n.1 del 2023 (legge n.15/2023). Comunque si voglia valutare il ruolo delle navi del soccorso civile, anche se il Decreto Piantedosi ha tentato di fare “rivivere” alcune disposizioni del precedente Decreto sicurezza bis n.53/2019, appare difficilmente contestabile come l’intera materia dei soccorsi in mare, fino allo sbarco a terra dei naufraghi (basti pensare all’art. 10 ter del Testo Unico sull’immigrazione n.286/1998), sia rigidamente disciplinata da norme aventi forza di legge e da convenzioni internazionali, o da regolamenti europei, come il Regolamento n.656/2014, che si impongono alle scelte discrezionali di polizia marittima od alle determinazioni “politiche”, ma in realtà, di natura amministrativa del titolare “pro tempore” del ministero dell’interno. Una precisa scala gerarchica delle fonti di legge e dei poteri statuali che è imposta dall’art.117 della Costituzione. Su questo e non su valutazioni condizionate dalle manifestazioni di piazza organizzate dalla Lega, si attende una decisione dei Tribunale penale di Palermo. Se questo è ancora uno Stato di diritto.

di Fulvio Vassallo PaleologoAvvocato. Opera attivamente nella difesa dei migranti e dei richiedenti asilo, in collaborazione con diverse Organizzazioni non governative. Fa parte della rete europea di assistenza, ricerca ed informazione Migreurop ed è componente della Campagna LasciateCientrare.

Fonte: Agenzia di Stampa internazionale Pressenza, https://www.pressenza.com/it/2024/09/2547671/

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