L’astensione del 60% significa sì una vittoria per il movimento di protesta Hirak: Ma ora serve una sua organizzazione. Perché la vittoria di Tebboune sta a significare che il blocco di potere che governa da sempre il paese è compatto più che mai.
I numeri delle elezioni del 12 dicembre 2019 la dicono lunga sul loro reale significato: ha vinto, al primo turno, Abdelmadjid Tebboune, 74 anni, l’unico candidato senza partito, con il 58% dei voti, distanziando nettamente gli altri quattro concorrenti . Ma il dato più significativo è l’astensione del 60% degli oltre 24 milioni di elettori, un primato negativo mai visto nel paese, cui si aggiungono le schede nulle (13%). Solo un elettore su 5 ha votato Tebboune, non proprio un plebiscito per una funzione cui la Costituzione affida un potere quasi assoluto.
Se si deve parlare di un vincitore pieno allora questo è l’Hirak, il movimento di protesta che ha fatto appello al boicottaggio del voto, per reclamare la fine del “sistema” di potere, e che per ben due volte era riuscito a far rinviare le elezioni. La gente è scesa in piazza a protestare anche il giorno del voto, un giovedì, e ha continuato a farlo il giorno dopo, per il 43° venerdì consecutivo dal 22 febbraio 2019, quando la protesta si è istituzionalizzata.
Si cerca di capire chi è Tebboune. Ma il movimento non è interessato ad andare a fondo della sua biografia. È stato più volte ministro dell’ex presidente Abdelaziz Bouteflika (costretto alle dimissioni il 2 aprile 2019) e questo lo qualifica a prescindere dalla sua brevissima esperienza come primo ministro, meno di tre mesi nel 2017, dopo uno scontro con una parte del sistema di potere. Per carriera e biografia è uno dei tanti personaggi omogenei al panorama politico del ventennio Bouteflika.
Tebboune ha subito teso la mano all’Hirak; del resto il contrario vorrebbe dire andare a uno scontro dagli esiti imprevedibili, proponendo l’apertura di un «dialogo serio». Si dice disposto a rivedere la Costituzione, riducendo le prerogative del presidente, vincolandolo imperativamente a un solo mandato, e riequilibrando i poteri col parlamento. Ha annunciato una nuova legge elettorale, ma ha escluso di voler fondare un proprio partito, e si è impegnato a combattere la corruzione e a non usare la grazia per i condannati corrotti. Al momento dell’elezione, suo figlio Khaled era in prigione per traffico di cocaina.
Il riassetto istituzionale per una “Nuova Repubblica”, deve però fare i conti con l’attuale sistema di potere che si regge sulle forze armate. Il problema non è tanto il loro capo, il generale Ahmed Ga’id Salah, che dapprima ha sostenuto la candidatura di Bouteflika per un quinto mandato, per poi costringerlo alle dimissioni su pressione della piazza. In questi mesi ha assunto il ruolo dell’ “uomo forte”, ma non avrebbe potuto farlo senza il consenso dei suoi pari. Il 13 gennaio compie 80 anni ed è prevedibile per lui quella uscita di scena già programmata anni fa, prima che il presidente Bouteflika lo chiamasse nel 2004 a capo delle forze armate.
Chiunque sarà alla sua testa, difficile pensare che l’esercito rinunci ai privilegi di cui gode. Proprio l’intreccio di interessi tra industria di stato, imprenditori privati, alta burocrazia, quadri dei partiti politici di governo e alti gradi delle forze armate, ha costituito il blocco di potere, il “sistema” contestato dall’Hirak, che ha retto finora il paese. Non sono certo i processi (che prima delle elezioni hanno condannato due ex primi ministri e diversi imprenditori) ad aver ripulito il sistema dalle sue logiche. Così come l’uscita di scena dello storico Fronte di liberazione nazionale (Fnl), che per la prima volta non si è presentato alle presidenziali, e il fallimento del partito “fratello” Raggruppamento nazionale democratico (il suo candidato Azzedine Mihoubi non ha ottenuto che il 7% dei voti) non bastano a rinnovare il panorama politico.
Tra le urgenze del nuovo presidente rimane l’economia. Da anni si parla di una riconversione energetica dovuta alle incertezze del mercato petrolifero: gas e petrolio assicurano il 97% delle entrate in valuta del paese. Prima delle elezioni, il vecchio governo ha modificato la legge che subordinava gli investimenti esteri a una compartecipazione maggioritaria del capitale algerino. Il sintomo più forte dell’incertezza che regna nel paese è il ritiro, a dicembre, di Volkswagen.
La sfida, però, è anche nel campo dell’Hirak. Le elezioni hanno avuto luogo, un presidente c’è, e il movimento, che non intende smobilitare, deve darsi altri orizzonti. La priorità è stata la richiesta della liberazione dei prigionieri politici, oltre 200 al momento del voto. Ma il cambiamento del “sistema” necessiterà probabilmente dei passaggi intermedi, un confronto, un “negoziato”, comunque lo si vorrà chiamare, con Tebboune. Per questo è diventata urgente l’organizzazione. Il movimento si è volutamente tenuto alla larga dalla questione per non riprodurre vecchie logiche, ma la sua maturità, dopo quasi un anno di mobilitazioni ininterrotte, si misurerà su questo terreno.
Di Luciano Ardesi
NIGRIZIA RIVISTA 1 – GENNAIO 2020