Il coronavirus ha portato con sé una nuova serie di sfide e quesiti da affrontare, che lasceranno indubbiamente il segno nella costruzione della società del futuro. L’Italia si è ritrovata dall’oggi al domani a doversi stravolgere e reinventare, trovando modi alternativi di affrontare le nuove sfide arrivate con la pandemia ed al contempo continuare, per quanto possibile, una vita “normale”, se così si può definire. Con ciò intendo continuare a lavorare, ad offrire servizi, a tenersi in contatto. In poche settimane la struttura sociale del nostro paese si è trasformata radicalmente: se fino a pochi mesi fa sembrava utopico parlare di smart working, oppure si criticava l’amministrazione pubblica per la mancanza di digitalizzazione dei servizi, in pochi giorni si è scoperta l’incredibile capacità di rispondere prontamente alla crisi e di adattarsi alla nuova situazione. È così che la maggior parte delle aziende italiane ha attivato il telelavoro laddove possibile, gli uffici hanno trovato nuovi modi di comunicare con le utenze, i nonni hanno imparato a videochiamare i loro nipoti e il mondo virtuale è diventato la nuova realtà. Sembrerebbe facile, ma sicuramente non lo è stato in un paese dove il cambiamento ha sempre rappresentato una paura inconscia nelle menti di tutti.
In questo contesto è importante ricordare un settore fondamentale per il futuro del nostro paese, quello dell’istruzione. Le Università si sono attivate molto velocemente per trasferire online tutti i loro servizi. A partire dalle lezioni, poi con i laboratori e con i servizi offerti dai vari uffici, il mondo accademico è stato trasferito sul web nella quasi totalità, più o meno su tutto il territorio nazionale. Possiamo presupporre che studenti, docenti e dipendenti universitari, fossero già in qualche modo preparati per un cambiamento di tale portata. Infatti, l’accademia dovrebbe rappresentare il futuro, l’innovazione, la ricerca ed il cambiamento. Purtroppo lo stesso non è accaduto nel mondo della scuola, dove la via della digitalizzazione ha spesso avuto molta difficoltà a farsi strada negli anni. In effetti le difficoltà da affrontare, riguardo al mondo della scuola, non sono poche e, nonostante gli enormi sforzi, non sarà facile risolverle in poco tempo.
Innanzi tutto c’è un problema di competenze: un corpo docente che non appartiene alla generazione digitale (con un’età media di 52 anni, fra i più anziani del mondo), che si ritrova a dover rivoluzionare i metodi di insegnamento tradizionali, per ritrovarsi fra le mani degli strumenti su cui nessuno ha mai investito. Ma il problema non è solo degli insegnanti, anche gli alunni sono solo autodidatti nell’apprendimento digitale. Basti pensare che nella scuola primaria tale apprendimento non è annoverato fra le materie obbligatorie indicate dal ministero dell’istruzione. A questo bisognerà ripensare una volta finita l’emergenza.
Esiste però un secondo problema su cui bisogna soffermarsi. Questo lo chiamerei l’elemento divisivo della scuola in rete: l’accesso alle risorse necessarie.
L’ISTAT, nel report “Cittadini, Imprese e Ict” (2018), stima che il 25% delle famiglie con almeno un minore non abbia accesso ad internet. Sempre l’Istituto Nazionale di Statistica informa che il 33.8% delle famiglie italiane non dispone di un tablet o di un computer. Nel mezzogiorno le percentuali salgono notevolmente, arrivando in Calabria al 46% di nuclei familiari che non dispongono di questi mezzi.
Ho definito questo fattore un elemento divisivo, il che dovrebbe farci riflettere. Coloro che non hanno a disposizione le risorse per connettersi e seguire la didattica telematica, rimangono una volta di più indietro e distaccati dai più fortunati, nati in una condizione economica più agiata. Lo svantaggio, come al solito, ricade sulle spalle dei più deboli, che non avranno la possibilità di accedere ad uno dei diritti fondamentali del nostro ordinamento, quello all’istruzione. E’ importante pensare a questo problema, perché, almeno in teoria, la scuola pubblica italiana dovrebbe essere in grado di offrire a tutti i suoi futuri cittadini un livello di istruzione uguale e consono.
Nel decreto “Cura Italia” il governo ha stanziato 85 milioni per colmare questi divari, investire in piattaforme di e-learning, formare gli insegnanti, acquistare dispositivi per il comodato d’uso alle famiglie meno abbienti. Forse a tutto ciò avremmo dovuto pensarci prima, per evitare di creare quel gap troppo difficile da colmare fra chi ha e chi non ha, chi può e chi non può. Nonostante l’enorme sforzo umano fatto da insegnanti e alunni, presidi e genitori, tutto ciò non può bastare, ed è necessario ripensare al nostro sistema scolastico, rinnovarlo e renderlo maggiormente inclusivo. La speranza è che questo virus ci lasci una grande lezione per il futuro, e che noi possiamo tenerla ben impressa nelle nostre menti. L’istruzione è un diritto fondamentale e nessuno deve restare indietro.
Silvia Cabras