Greta Thunberg, la giovane attivista svedese paladina dell’attivismo “verde”, è ormai sulla bocca di tutti.
Con i suoi interventi nei più importanti forum politici ed economici mondiali, è riuscita a sensibilizzare le popolazioni di tutto il mondo, portando la questione ecologica in ogni TV, smartphone e computer, fino alle piazze di ogni nazione, dove il 15 marzo studenti e lavoratori si sono riuniti per manifestare la volontà di una transizione verso energie rinnovabili e la necessità di ridurre in modo massiccio l’utilizzo di materiali dannosi per l’ambiente e per la salute umana.
Migliaia, milioni di cittadini si sono fatti protagonisti di lodevoli azioni, impegnandosi nel ripulire dai rifiuti le città e gli ambienti naturali, limitando l’utilizzo di plastica usa e getta e di mezzi di trasporto alimentati con idrocarburi, laddove non sia presente una reale necessità.
La questione ambientale è entrata nella dialettica politica di ogni nazione, dove capi di stato e rappresentanti politici di ogni fazione riconoscono la necessità di un’azione comune nel combattere il surriscaldamento globale e l’inquinamento.
Insomma, la giovane Greta ha fatto scattare un interruttore nelle menti di gran parte del genere umano e oggi gode di un consenso di cui quasi nessuno gode al giorno d’oggi.
Ma non è tutto oro ciò che luccica.
Una volta riconosciuti gli effetti incredibilmente positivi del fenomeno Greta, bisogna, senza peccare di scetticismo e complottismo, scavare più a fondo.
Accettare ciecamente un evento di tale portata e non analizzare in modo critico un soggetto che gode di un tale consenso, comporta il rischio di non comprendere adeguatamente il quadro generale.
Il periodo storico in cui ci troviamo è e sarà uno dei più colmi di cambiamenti ed eventi epocali; in primis, la transizione dagli idrocarburi, a causa di una sempre maggiore attenzione alle tematiche ecologiche e per quantità delle risorse (le stime affermano che le riserve petrolifere termineranno nei prossimi 70 anni), è obbligatoria, e sconvolgerà gli equilibri geopolitici, i rapporti di potere e gli stili di vita di tutto il mondo.
La gestione socio-economica del nostro sistema ha le proprie fondamenta sulle risorse energetiche e una transizione a riguardo richiede un adattamento da parte di coloro che gestiscono i centri di potere economico-finanziari e politici, ovvero le élite.
Le maggiori potenze mondiali investono in energie rinnovabili da tempo, a tal punto che dal 2004 a oggi gli investimenti sono aumentati di sette volte.
Le grandi banche, le istituzioni finanziare, gruppi di investimento e corporation sono al corrente di questa necessità da decenni e la transizione energetica è un fenomeno che prendono seriamente in considerazione da molto prima che nascesse il fenomeno Greta e da molto prima del 15 marzo; per citarne alcune, Bloomberg New Energy Finance, Deutsche Bank, Allianz, SunEdison, JP Morgan, Goldman Sachs riconoscono il fenomeno e investono in energie rinnovabili da decenni.
Lo si può leggere in un comunicato rilasciato da Allianz: “Il mercato delle rinnovabili è cresciuto drammaticamente negli ultimi anni. Gli investimenti nell’eolico e nel solare offrono un flusso di profitti particolarmente goloso a fronte di profili di rischio del tutto accettabili”.
Come enunciato nel comunicato, le istituzioni prima elencate sono orientate al profitto economico, e per esso si muovono. Non per filantropia e sensibilità verso i temi trattati, ma per il profitto.
Non è di loro interesse il benessere sociale dell’umanità (penso che la storia spieghi e confermi a sufficienza questa affermazione); semplicemente si stanno adattando alla transizione energetica (che genera profitto) e per farlo devono mantenere la gestione dei centri di potere economico-politici; il principale problema rimasto concerne la gestione del consenso e dell’opinione pubblica.
A prima vista, sembrerebbe un problema inesistente: per quale motivo un individuo dovrebbe essere contrario a questo impegno da parte delle istituzioni?
Il rischio, a parer mio, potrebbe derivare da un’ esagerata presa di coscienza da parte dell’opinione pubblica, la quale, nell’analizzare il problema, potrebbe giungere a mettere in discussione l’esistenza stessa del sistema socio-economico attuale, mettendo a rischio i rapporti di potere esistenti.
Se non guidato, il consenso riguardante la transizione energetica potrebbe sfociare in una critica più ampia e prendere in considerazione altri aspetti delle problematiche ecologiche oltre a quelli esposti da Greta (che principalmente si occupa di riduzione di emissioni di Co2, diminuzione dell’ utilizzo di plastica usa e getta e smaltimento dei rifiuti); ad esempio, potrebbe entrare nell’immaginario comune il fatto che l’impatto ambientale del consumo mondiale di carne e derivati animali e della connessa agricoltura animale, sia tra i principali responsabili di emissioni (il 15% delle emissioni deriva dall’allevamento), dispendio d’acqua (quasi 1/3 dell’utilizzo mondiale di acqua dolce è adibito all’allevamento di animali da carne) e perdita di biodiversità (conversione delle foreste in terreni da pascolo e coltivazione di mangimi).
Un simile evento causerebbe non poche perdite economiche alle corporazioni che oggi gestiscono il settore dell’alimentazione, un settore tra i più redditizi.
Se non giustamente indirizzata, l’opinione pubblica potrebbe avvicinarsi ad una critica radicale della società, riconoscendo che l’orientamento incondizionato e sfrenato verso il profitto è la causa ultima dei problemi ecologici e, ovviamente, non solo: disuguaglianza sociale, guerre militari ed economiche, corruzione e sfruttamento possono essere chiaramente ricondotti alla stessa causa.
Un’ eventuale presa di coscienza riguardante questi temi, comporterebbe una perdita di consenso da parte dell’establishment e una conseguente nuova richiesta di rappresentanza da parte dell’opinione pubblica.
Le stesse istituzioni prima citate subirebbero un enorme shock, al quale probabilmente non riuscirebbero ad adattarsi.
Arrivando al punto, la giovane Greta Thunberg, senza discutere sull’indipendenza della sua persona e delle sue idee, appare come la rappresentante dell’ attivismo “verde” scelta da coloro che gestiscono le istituzioni per dirigere l’opinione pubblica, tramite la “fabbrica del consenso” (appellativo con cui Noam Chomsky descrive i mass media), lungo il cammino verso la transizione energetica, impedendo un’ eventuale uscita dai margini.
Greta è il leader e la guida che meno mette a rischio l’egemonia degli attuali centri di potere. Non a caso la sua fama deriva soprattutto dai discorsi che i più importanti uomini politici ed imprenditori le hanno permesso di fare, offrendole, per di più, la visibilità dei palcoscenici più importanti del mondo (Davos, COP24, Parlamento Europeo).
Basta riflettere sul fatto che l’attivismo “verde”, da decenni ampiamente diffuso nel mondo e spesso accompagnato da una critica radicale della società, non ha finora trovato ascolto presso la classe dominante.
Vari movimenti sociali e culturali nel corso della storia moderna hanno portato nei propri discorsi, oltre a critiche sociali, anche tematiche ambientali, ma al contrario di Greta hanno ricevuto risposte ostili.
Questi movimenti sono sempre stati tenuti al di fuori della sfera istituzionale, la quale rifiutava le loro istanze e ne combatteva la diffusione.
La presa di coscienza di quei gruppi prendeva in considerazione critiche sistemiche e l’élite non poteva permettersi di dar loro ascolto e soprattutto visibilità mediatica; quei movimenti non hanno mai ottenuto lo spazio necessario da parte delle istituzioni che, tramite la macchina mediatica, hanno provveduto a screditare la legittimità di tali denunce.
La giovane e coraggiosa Greta, probabilmente anche a causa della sua età, rappresenta per l’establishment il perfetto esponente dell’attivismo ecologico e, per ora, è il soggetto che, nel sensibilizzare l’umanità riguardo ai temi ambientali, mette meno in pericolo la persistenza e l’egemonia degli attuali rapporti di potere.
Francesco Zini