Violenza verbale, hate speech e questioni di genere nei new media

In un mondo sempre più globalizzato e caratterizzato dall’avvento del Web 2.0, la diffusione dell’hate speech (discorso d’odio) su Internet è divenuto allarmante, soprattutto perché alcuni fattori legati al cambiamento della morfologia sociale sempre più multiculturale e individualizzata hanno ampliato le fratture sociali e i processi di discriminazione in una maniera mai vista prima.

Con lo sviluppo dei media è cambiata l’idea stessa di discussione pubblica, che non è più condotta solo da soggetti istituzionalmente predisposti alla produzione e fruizione dell’informazione (televisioni, giornali…), ma anche da soggetti individuali, non esperti, che producono ampie reti di informazioni distorte che portano alla circolazione in pochi secondi di notizie che non rispecchiano la realtà, generando stati di confusione e risentimento.

L’hate speech non è sicuramente una questione nuova, ma il ricorso ad Internet per diffondere e incitare all’odio ha generato negli ultimi tempi un dibattito pubblico e un’attenzione sociale in relazione all’ambiente dei social media, dove gli episodi di aggressione verbale e parole offensive razziste e sessiste stanno diventando sempre più frequenti.

Possiamo definire l’hate speech come un discorso mirato a stimolare e incentivare odio nei confronti di determinati gruppi o soggetti a causa della loro etnia, religione, cultura, genere o orientamento sessuale. Le offese possono richiamare ad una categoria, stigmatizzare luoghi, professioni ed evidenziare le disabilità, scarti di una presupposta “normalità fisica” o sociale. Per questo l’hate speech deve essere inteso in senso ampio, includendo in generale qualsiasi tipo di comunicazione verbale e non, che diffonda un messaggio d’odio.

Spesso le offese si si caratterizzano in allusioni, espressioni ironiche e indirette, che faticano ad essere classificate come vere forme di odio, perché ci troviamo di fronte ad un dilemma tra libertà di espressione e debolezza di un’etica nel processo di costruzione e diffusione di quest’ultima. Per i motivi appena citati è difficile delimitare i confini dei discorsi d’odio quando l’ambito di analisi è quello della Rete, la quale non ha delle regole universali su cosa può e non può essere scritto, soprattutto, come abbiamo detto, perché le offese possono assumere forme velate e indirette.

In Italia, come nel resto dell’Europa, i dati relativi al fenomeno dell’hate speech sono in crescita soprattutto dal 2016. Nello stesso anno, la Commissione Europea ha emanato un Codice di condotta per contrastare l’illecito incitamento all’odio online, adottato poi dalle principali aziende informatiche (Google, Facebook, Twitter e Microsoft). Detto Codice, ad oggi, produce risultati, rendendo sempre più veloce ed efficace la verifica e l’eventuale rimozione dei commenti d’odio che si propagano con forza incontrollata all’interno della realtà virtuale in cui si perde il confine tra razionalità ed emozione, dando libero sfogo ai risentimenti verso alcune categorie di persone.

Il Codice però, non è giuridicamente vincolante e il fenomeno dell’hate speech continua a trovare terreno fertile soprattutto perché i commenti sono imprevedibili a causa di una possibile nuova pubblicazione del messaggio da parte di altri utenti e alcuni di questi ultimi possono risultare anonimi o sotto falso profilo. Inoltre la transnazionalità della Rete permette di aggirare le regole di Paesi che hanno messo in atto provvedimenti per chi incita all’odio.

I provvedimenti adottati risultano però parzialmente efficaci, perché l’odio e la sua diffusione sono strumento con cui si definisce lo spazio delle relazioni sociali e con cui si delimita il “noi e il “loro” in un paradossale fattore di coesione, che riesce ad attivare meccanismi di esclusione ben radicati e che portano a quello che il sociologo Stanley Cohen nel 1972 ha definito “Moral Panic”, che nasce quando “una condizione, un evento, una persona o un gruppo di persone viene identificato come una minaccia ai valori e agli interessi di una società .

A questo proposito va anche reso noto il meccanismo dietro quella che è la media logic, ovvero la logica dei media per ottenere visibilità e dato che i discorsi d’odio e gossip diffamatori sono molto spesso trattati in modo sensazionalistico, sono anche quelli che molto probabilmente scateneranno i media, ottenendo sempre più visibilità e consenso, rendendo poi più complicato il funzionamento di anticorpi sociali. Le notizie proposte dai media sembrano “sottoscrivere” già le emozioni che si devono provare, toccando profondamente il modo e la gestione con cui le persone vivono le loro emozioni, scatenando da una parte quel bisogno di espressività individuale e dall’altra il formarsi e plasmarsi di un mercato mediatico con cui ci confrontiamo per rispondere a questo bisogno.

Nell’analisi dei dati del GMMP (Global Media Monitoring Project) viene mostrato come il ruolo dei media e della lingua nella trasmissione di stereotipi di genere rinforzino una cultura fondata sulla violenza verbale e i discorsi d’odio, che assumono anche forme sessiste, ovvero i “sexist hate speech”. L’hate speech di matrice sessista si concretizza oggi, in particolare con l’avvento di Internet, in una manifestazione di violenza contro le donne espressa attraverso il linguaggio.

Secondo il Consiglio d’Europa la violenza verbale sessista si manifesta nella colpevolizzazione della vittima (victim blaming), ri-vittimizzazione (re-victimisation), denigrazione a sfondo sessuale (slut shaming), ridicolizzazione del corpo (body shaming) e pornografia usata per vendetta (revenge porn), fino ad arrivare a minacce di stupro.

Il terreno su cui cresce l’hate speech sessista viene sostenuto per esempio da immagini iper-sessualizzate, stereotipi che reiterano aspettative sociali tradizionali nei confronti del ruolo delle donne nella società, messaggi pubblicitari che propongono una sorta di “estetica della finzione” di atti violenti, come lo stupro della campagna pubblicitaria di Dolce e Gabbana del 2007 o la rappresentazione di un femminicidio nella pubblicità del 2013 dello straccio per le pulizie offerto da un’azienda di Casoria, Napoli. Il problema in tutto questo è che il grado di finzione non cancella il valore simbolico di dominanza sulle donne, portata all’estremo in queste pubblicità, visibili e fruibili in pochi secondi da milioni di persone. Ancora oggi le rappresentazioni pubblicitarie sembrano coltivare quella “mistica della femminilità” denunciata tra gli anni ’60 e ’70 del ‘900 dall’attivista e teorica statunitense dei movimenti femministi Betty Friedan, rinforzando un immaginario collettivo stereotipato della donna.

Questo per ricordare come già visto in precedenza la difficoltà di delimitare e definire ciò che è considerato e sentito come discorso d’odio e che il diritto alla libertà di espressione spesso viene utilizzato come alibi per violare la dignità delle persone.

Le azioni per contrastare l’hate speech vedono coinvolta la società civile e le istituzioni, molte delle quali hanno sviluppato negli ultimi anni vari progetti con l’obiettivo di avviare attività non solo di informazione, ma anche di formazione sul tema, attraverso campagne di sensibilizzazione per le persone che navigano in Internet. Tra vari, il progetto europeo eMORE (monitoring and reporting on line hate speech in Europe), attivo in nove Stati membri dell’Unione Europea (tra cui l’Italia) fa emergere l’urgenza di favorire e accrescere la digital literacy, ovvero l’educazione al mondo digitale, nella speranza di arginare l’hate speech.

Il mondo digitale è diventato luogo di relazioni che creano comunità e come tali necessitano di strategie educative che insegnino ad analizzare in modo critico quali sono le regole per il bene comune. Inoltre, acquisire competenze emotive può rappresentare per i giovani una possibilità di orientamento nella costruzione del valore della parola nel processo di comunicazione in una società digitale che diffonde l’individualismo come forma dominante di socialità. I media infatti, sicuramente facilitano la comunicazione, che risulta quasi istantanea, ma di contro creano un vuoto nell’emotività scaturita dal relazionarsi dal vivo. In questo senso supportare un’educazione alle emozioni potrebbe orientare i giovani verso dimensioni di empatia, aiutandoli a scegliere saggiamente il modo con il quale “connettersi” agli altri.

Sitografia:

Parole pesanti. Hate Speech e comunicazione politica ai tempi dei social media di Marinella Belluati; 2020.

Il fenomeno dell’hate speech e la cultura digitale. La scuola degli affetti come bene comune di Simona Perfetti; 2020.

L’hate speech al tempo di Internet di Roberto Bortone; 2017

In Guardiamola in faccia I mille volti della violenza di genere a cura di Fatima Farina, Bruna Mura e Raffaella Sarti; parte II, Violenza verbale nei media e questioni di genere di Giuliana Giusti e Monia Azzalini; 2020.

Bibliografia:

Cohen S., Folk Devils and Moral Panics: the creation of the Mods and the Lockers, MacGibbon and Kee, London, 1972.

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