Una speranza per lo Zimbabwe: la transizione verso un paese più moderato

In Zimbabwe il 21 novembre, di fronte al parlamento, il presidente della camera Mudenda ha dichiarato le dimissioni di Robert Mugabe, dopo 37 anni di potere.

Prima del 1980, data in cui effettivamente ottenne l’incarico di primo ministro, aveva dovuto tener testa a una lotta di potere interna che l’aveva visto contrapposto a Mnangagwa e Mujuru. Il primo era stato uno dei rivoluzionari che avevano partecipato alla lotta di liberazione dello stesso paese ed era divenuto vicepresidente nonché delfino di Mugabe; intorno ai primi di novembre dello scorso anno, in vista delle elezioni presidenziali, la tensione tra Mnangagwa e la first lady Grace Mugabe (una delle candidate), era arrivata alle stelle e aveva portato al “ben servito” del vicepresidente, espulso il 6 novembre non solo dal suo incarico, ma anche dal partito. Era, questo, un escamotage affinché si eliminasse ogni opposizione alla candidatura di Grace. Realizzando la sua posizione precaria, Mnangagwa chiese quindi aiuto all’esercito che lo avrebbe aiutato a fuggire in Sudafrica. A quel punto le forze armate, per sbarazzarsi dell’avida first lady e di un presidente ormai odiato da tutti, avevano preso in mano la situazione, spianando la strada del potere nuovamente a Mnangagwa (facente parte del partito Unione Nazionale Africana di Zimbabwe) che il 24 novembre ha prestato giuramento divenendo il terzo presidente dello Zimbabwe.

Il nuovo presidente e il suo governo di transizione hanno il compito di preparare le elezioni entro quest’anno, ma c’è bisogno anche di riformare la politica e garantire riforme costituzionali. Per il nuovo gabinetto dei ministri si è voluto premiare i militari, nominando come ministro degli esteri il maggiore generale Moyo e al dicastero dell’agricoltura Shiri, il maresciallo dell’aviazione militare; non si è però dato spazio agli esponenti dell’opposizione e della società civile.

Dal punto di vista politico il nuovo presidente, soprannominato scherzosamente “coccodrillo” per il suo tratto spietato, dovrebbe dare una spinta al percorso di emendamento di alcuni decreti legislativi rimasti impantanati per anni (come quelli riguardanti l’ordine pubblico e la pubblica sicurezza). Bisogna poi rivedere il problema dell’amnistia presidenziale per tutti i detenuti politici e il miglioramento delle condizioni di vita nelle carceri.

Per quanto riguarda invece l’ambito economico, lo Zimbabwe versa da anni in una profonda crisi, anche se negli ultimi anni molti cittadini si sono dimostrati capaci di affrontare le enormi sfide sociali a cui il Paese é costretto. Tra le riforme economiche rientrerebbe anche il ridimensionamento del numero dei ministri di governo, che con i loro viaggi all’estero hanno appesantito di molto le casse pubbliche. É necessario attuare un piano per affrontare la crisi di liquidità delle banche, che ha progressivamente frantumato la fiducia nei consumatori. Anche il programma di indigenizzazione delle imprese andrebbe rivisto: approvato nel 2008, questo richiede alle compagnie straniere di affidare il 51% del capitale a partner locali, e ciò ha significato una serie minaccia agli investimenti esteri. Un altro punto toccato dal primo ministro sarà la ripresa delle relazioni bilaterali economico-commerciali in primo luogo con la Gran Bretagna, poi con la Cina e con alcuni paesi del Medioriente e dell’Asia.

In Zimbabwe la tradizione del sistema clientelare è difficile da estirpare, ma una ventata nuova al potere non può che far bene a un paese da sempre rimasto ancorato agli standard elitari che addomesticano gli animi sopprimendo idee stimolanti e innovative.

Camilla Cazzato

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