Una introduzione e tre storie: la flessibilità, i licenziamenti e il processo del lavoro -prima parte-

di Carlo Sorgi (già Giudice del Lavoro)

Inquadramento storico:

Il diritto del lavoro dei primi anni Sessanta (e fino all’entrata in vigore della legge 14/7/1966 n. 604 sulla giusta causa e il giustificato motivo di licenziamento) era legato ad un insegnamento universitario spesso complementare e comunque ritenuto sottosettore del diritto civile. Fino al 1966 la storia del lavoro nelle fabbriche italiane (Fiat in testa) è una storia ricca (e documentata anche sul piano giudiziario), di discriminazioni, con schedature dei lavoratori, reparti di punizione o di isolamento per i lavoratori “scomodi”, con vere e proprie condotte di sistematica repressione contro il sindacato e i suoi associati. Con la legge 604/1966, considerata la possibilità di espulsione (del lavoratore) a capriccio del datore di lavoro secondo la disciplina del codice del 1942, fu introdotto un parziale limite, peraltro coerente ai principi comuni del diritto civile, al potere del datore di lavoro di chiudere il rapporto subordinato con licenziamento individuale senza giusta causa o senza giustificato motivo. La competenza a giudicare dei licenziamenti individuali era attribuita in primo grado al Pretore (in appello al Tribunale) e dunque a generazioni di magistrati di recente immessi in magistratura e provenienti da classi sociali “nuove” dopo corsi universitari e talora rapidi percorsi concorsuali che consentivano l’ingresso nell’ordine giudiziario anche di soggetti meritevoli provenienti da famiglie di non elevato reddito.

In seguito venne la grande stagione delle riforme in Italia, nel settore del lavoro con lo Statuto dei lavoratori (l.300\1970) e con l’istituzionalizzazione del rito del lavoro ( l.533\1973 ) e la legge che stabilisce la parità di trattamento sul lavoro tra uomini e donne ( l.903 \1977 ). La svolta, almeno in termini normativi, si realizza verso la fine degli anni ’90, in particolare con il c.d. pacchetto Treu (l.196\1997) che introducendo la possibilità di utilizzare il lavoro interinale amplia notevolmente i margini di applicabilità del lavoro a tempo determinato.

Il passaggio successivo è il libro bianco del lavoro dell’ottobre 2001, quasi un manifesto sull’esigenza di flessibilità nel mercato del lavoro, dal quale scaturì la successiva normativa, la l.30\2003 (“Delega al Governo in materia di occupazione e mercato del lavoro”, G. U. n. 47 del 26 Febbraio 2003). Uno dei punti cardini delle idee base presenti all’interno della Legge 30 è sicuramente quella legata alla flessibilità del mercato del lavoro. Tale idea di flessibilità in ambito lavorativo venne realizzata attraverso la nascita dei contratti a progetto (co.co.pro.) .

Il mito della Flessibilità

Da allora un susseguirsi di normative nel settore sempre intese a ridimensionare le tutele ed aumentare il livello di flessibilità sul presupposto che tale formula magica potesse creare occupazione, ragionamento smentito ai più alti livelli: ”“il 72 per cento delle analisi empiriche pubblicate tra il 1990 e il 2019 non conferma che la flessibilità crea occupazione, una percentuale che addirittura sale all’88 per cento se osserviamo gli studi tecnicamente più avanzati dell’ultimo decennio” ( Fonte: “La precarietà del lavoro non crea occupazione. Una ricerca sfata il mito della flessibilità”; articolo-intervista a Emiliano Brancaccio, da parte di Pietro Raitano per Altraeconomia.it, dell’8 giugno 2020). E questo senza considerare i costi umani della flessibilità così introdotti nel paese. Oggi non ti fanno neppure un contratto di affitto se non hai un contratto a tempo indeterminato. La flessibilità non è altro che precarietà per chi la subisce.

Fortunatamente per i destini della sinistra in Europa, la sindrome italiana non pare contagiosa, nemmeno nei Paesi del Sud. Il caso più emblematico è la Spagna, dove dal 2019 il Partito socialista governa in coalizione con l’alleanza Podemos-Izquierda Unida.

Negli ultimi tre anni l’esecutivo spagnolo ha infatti ridato centralità alle tematiche del lavoro con una riforma dello scorso anno fortemente voluta dalla ministra Yolanda Díaz Pérez (la politica che ha posto la lotta contro il lavoro precario come obiettivo principale del suo mandato). La riforma prevede più penalità per i contratti ultra-brevi; elimina quelli per opera o servizi; introduce l’obbligo di giustificare le cause dei contratti temporanei e multe molto più elevate per le infrazioni rilevate dell’ispettorato del lavoro. Che con controlli a tappeto ha fatto emergere migliaia di impieghi fraudolenti. Il risultato è oltre un milione di occupati in più con contratto indeterminato nell’ultimo anno, che ha portato a un totale di quasi 20,5 milioni di iscritti alla Previdenza sociale nel secondo trimestre dell’anno. Il tasso dei minori di 30 anni con contratti indeterminati è aumentato di 32 punti percentuali, fino al 69%, rispetto al 37% di media fra settembre 2017-2019. Importante ricordate che in Spagna da anni c’è il salario minimo e il Governo, dato il processo di inflazione in corso, è in procinto di alzare ulteriormente la cifra mensile (1.040,00 euro), nonostante il disaccordo totale degli industriali che non hanno partecipato al tavolo delle trattative. Altrettanto importante, non si sono registrati effetti negativi sul mercato di lavoro, che anzi sembra entrato in un momento d’oro: la disoccupazione ha raggiunto il livello più basso dal 2008 riducendosi di più di 1,1 milioni di unità negli ultimi 16 mesi e scendendo sotto i tre milioni per la prima volta dal 2008. Il tasso di disoccupazione è passato dal 16,3% di dicembre 2020 al 13,1% di maggio 2022.

La crisi determinata dagli scenari di guerra colpisce ovviamente anche la Spagna, c’è stato un ritocco al ribasso della previsione di crescita del governo per il 2023: dal 2,7% al 2,1%. Ma il clima che si respira è quello di una volontà di andare comunque incontro alle esigenze dei lavoratori, clima ben diverso da quello nostrano.

(fine prima parte)

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