Aldo Capitini non è un filosofo sistematico né un “intellettuale organico” alla politica. Potremmo definirlo un filosofo pratico, il cui pensiero è al servizio dell’orientamento della prassi e la cui azione politica nutre il denso dipanarsi della teoria, con l’aggiunta di una dimensione profetica rivoluzionaria. A questo scopo in ciascun suo scritto i temi schiettamente filosofici intersecano quelli religiosi, educativi, politici. I risultati delle nostre azioni non sono nella nostra disponibilità, solo i mezzi che usiamo dipendono direttamente da noi e di questi siamo responsabili. A partire da questa persuasione, Capitini apre una prospettiva diversa di azione politica, fondata su una originale ricerca filosofica. Fino a raggiungere una veste matura ed articolata nello stesso giro di anni che preparano e accompagnano la “rivoluzione” del ’68. Poiché è convinto che “conoscere il mondo è connesso al volerlo cambiare”, la sua opera di innovatore culturale è intrecciata con l’instancabile azione organizzatrice di iniziative e progetti di trasformazione. Aldo Capitini, costantemente in anticipo sui suoi tempi, ha promosso una avanzata prospettiva liberalsocialista, ancora sotto la dittatura fascista; fondato i Centri di Orientamento Sociale per la formazione alla democrazia partecipata nei territori dell’Italia appena liberata, prima delle prime elezioni democratiche; costruito nel nostro Paese un movimento per la pace autonomo dalle logiche di schieramento della guerra fredda – capace di proporre una propria agenda di disarmo, militare, culturale e politico – convocando la “Marcia della pace per la fratellanza dei popoli” nel 1961, a pochi mesi dalla costruzione del muro di Berlino.
Il pensiero di Capitini, a cinquanta anni dalla morte, è ancora generativo per il nostro presente. Anzi, man mano che ci allontaniamo nel tempo dalla sua lezione, Aldo Capitini ci appare sempre più attuale, mentre il nostro Paese ci appare – a suo paragone – ancora del tutto inattuale.
Tratto dall’articolo di Pasquale Pugliese.