Il 13 maggio 1939 salpava dal porto di Amburgo la nave St. Louis, transatlantico battente bandiera tedesca, con a bordo 937 profughi di cui 930 ebrei. Le autorità tedesche avevano concesso loro di lasciare la Germania, dopo averne confiscato i beni. Partivano dotati di visto turistico per Cuba, per lasciarsi alle spalle le persecuzioni e l’incubo dei “campi”.
Ma Cuba, che nel frattempo aveva modificato le leggi sull’immigrazione, non li accettò né come turisti né come rifugiati e solo pochi di loro, una trentina, ebbero il permesso di sbarco.
Il presidente cubano (Federico Laredo Brú) temeva che scoppiassero disordini se avesse accolto un così alto numero di persone che non avrebbero potuto provvedere a se stesse, nonostante le organizzazioni ebraiche americane offrissero di provvedere al loro sostentamento fino a quando avessero trovato una più stabile sistemazione.La nave allora navigò verso la Florida, ma nemmeno i porti degli Stati Uniti si aprirono. Roosevelt aveva varato le quote annuali di immigrazione oltre le quali non era disposto ad andare, perché il paese stava uscendo faticosamente dalla crisi del ’29 e voleva pensare ai “suoi disoccupati”. E così la nave non poté approdare e nessuno poté sbarcare.
E non meglio andò con il tentativo successivo (Canada) perché anche i porti canadesi rimasero chiusi. Qui addirittura il responsabile dell’immigrazione alla domanda su quanti ebrei fosse disposto ad accogliere rispose: «None is too many» («Nessuno è anche troppo»). I porti rimasero chiusi. Così come non si aprirono i porti dei paesi sudamericani che pure furono coinvolti.
Allora, nel panico crescente dei suoi passeggeri, la nave fu costretta a fare nuovamente rotta verso l’Europa. Qui, solo per la ferma decisione del Capitano della nave Schröder di tutelare i suoi passeggeri e per le febbrili trattative delle organizzazioni ebraiche con alcuni paesi europei, fu raggiunto l’accordo di distribuire per “quote” i profughi tra Inghilterra, Francia, Belgio e Paesi Bassi.
Il 17 giugno 1939, la nave approdò, infine, ad Anversa (Belgio).
Ma l’incubo per tutti coloro che raggiunsero il continente europeo non finì. Secondo lo United States Holocaust Memorial Museum di Washington, «Dei 620 passeggeri della St. Louis che tornarono nel continente Europeo, […] 87 furono in grado di emigrare prima che la Germania iniziasse l’invasione dell’Europa occidentale il 10 maggio 1940. 254 passeggeri [accolti] in Belgio, Francia, Paesi Bassi morirono dopo quella data durante l’Olocausto. […] Dei 620 passeggeri che ritornarono nel continente Europeo soltanto 365 sopravvissero alla fine della guerra».
Oggi, negli stessi giorni dell’odissea della St. Louis, settantanove anni dopo, altre navi trovano i porti chiusi. Sono i porti della Fortezza Europa, nel nostro mare. E le motivazioni non sono dissimili.
La storia non si ripete mai uguale, ma molti fatti riecheggiano avvenimenti del passato.
In questo caso non si tratta di cittadini europei cacciati dal loro paese per
motivi razziali, ma sono migranti, profughi, rifugiati, richiedenti asilo provenienti da altri continenti spinti verso di noi da motivazioni, cui le nostre politiche economiche e colonialiste non sono estranee: povertà, cambiamenti climatici, sfruttamento di risorse, guerre, persecuzioni religiose.
Anche oggi ci troviamo di fronte a una società impoverita da una lunga crisi economica in cui è cresciuto il disagio sociale e con esso il rancore sociale che apre la via dei nazionalismi. Si accentua il “ritorno alle tribù”, come ci dice Bauman in Retrotopia, e cioè la
chiusura in un “noi” contrapposto a un “loro”, i migranti, cui non devono essere accordati gli stessi diritti di cittadinanza.
“Loro” vengono vissuti come portatori di deprivazioni (di ciò che consideriamo nostro diritto avere), come se le politiche del welfare fossero deficitarie per la loro presenza e non perché le politiche neo liberiste e di austerità le abbiano affossate negli anni.
Stereotipi, etichettamento, stigmatizzazione approfondiscono la distanza sociale tra i gruppi, fino a far diventare i migranti dei nemici, oggetto di respingimento, aggressività verbale e fisica.
La costruzione dell’immagine dell’altro si ammanta del pregiudizio che diviene “funzionale” a un nazionalismo irresponsabilmente alimentato dalle politiche di alcuni paesi europei. Che dichiarano apertamente di voler mantenere la “purezza dell’identità” dimentichi, a ottant’anni dalle leggi razziali e dalla Notte dei Cristalli, degli orrori che la difesa di questa identità ha causato nel passato proprio nel nostro Continente. E dimentichi che siamo già il risultato di movimenti migratori del passato, movimenti che ci sono sempre stati e che ora hanno solo subito una forte intensificazione.
La drammatica odissea cui sono obbligate in questi giorni le navi che hanno recuperato in mare persone in pericolo non solo è in violazione di tutte le Convenzioni europee e internazionali che ci siamo dati nel tempo, perché adattate secondo le convenzioni politiche del momento. Infligge un trattamento inumano a persone già deboli, sopravvissute a stento alla traversata dei deserti e che hanno vissuto, nei lager dove vorremmo rimandarle, situazioni tragiche di soprusi e violenze.
E sbarcate in Europa, vengono scaricate da un paese all’altro con un vergognoso e “mercanteggiato” conteggio per “quote”.
E se succede che qualche disperato si ribelli (ma quale forza? ma quale capacità di intimidazione potrà mai avere chi a stento riesce a sopravvivere, stremato, alla sua lunga e disperata odissea?) ne si reclama a gran voce la “discesa della scaletta in manette”. Per inciso anche sulla St. Louis, al momento in cui il Capitano decise di invertire la rotta per tornare in Europa, ci fu un tentativo di ammutinamento (nemmeno gli ebrei volevano tornare nella realtà da cui stavano fuggendo). Schröder riuscì a riportare la situazione sotto controllo con il dialogo, la persuasione, e non scrisse mai l’accaduto nel diario di bordo (non denunciò). E poi all’arrivo ad Anversa si sforzò al massimo per ottenere che i suoi “passeggeri” fossero accolti dai vari paesi. Oggi il Capitano Schröder è ricordato nel Giardino dei Giusti a Gerusalemme.
Il risultato delle nostre politiche è che la Fortezza Europa preferisce spendere più nei respingimenti che nell’accoglienza.
In questo modo insieme ai migranti annega anche la nostra pietas.
Secondo i calcoli dello United for Intercultural Action (network europeo contro il nazionalismo, il razzismo e il fascismo con sede ad Amsterdam) negli ultimi 15 anni sono annegati nel Mediterraneo 34.361 migranti (il dato è per difetto), mentre per l’Unhcr (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati) per ogni morto in mare ce ne sono due nel deserto.
Mi ha molto colpito ciò che Ytzhak Laor, scrittore ebreo israeliano, afferma in un’intervista contenuta nel libro di Michele Giorgio e Chiara Cruciati, Israele, mito e realtà (ed. Alegre 2018). Dopo essersi domandato come mai l’Europa avesse sentito l’esigenza, a partire dagli anni ’90, di commemorare con una giornata l’Olocausto, risponde: «[…] negli anni ’90 al progetto ideale della sinistra si è sostituito l’approccio liberale […]. Una visione largamente accettata ma che ha generato un vuoto intellettuale e morale. La cultura e la memoria dell’Olocausto hanno contribuito a riempire quel vuoto, diventando un nuovo orizzonte di riferimento. Morte le ideologie gli europei avevano bisogno di un solido pilastro al quale aggrapparsi e lo hanno trovato nell’Olocausto. Si sono proiettati nel passato pensando: io in quegli anni sarei stato antinazista, avrei salvato gli ebrei».
In questa sorte di retrotopia i ruoli di vittime e carnefici sono chiari a tutti. Alla St. Louis avremmo aperto i porti.
Allora fra quanti decenni, ammesso che troveremo un barlume di lucidità in tanto furore, chi verrà dopo di noi dirà: «alle migliaia di donne e bambini e uomini che fuggivano da fame e violenze o che comunque erano in cerca di un vivere migliore io avrei dato approdo»?
E nel frattempo quante altre speranze, e di chi, non troveranno un porto ad accoglierle?
Roberta Merighi