di Andrea Saletti –
contenuto nel N. 78 Notiziario per i soci e i volontari del Comitato per la lotta contro la fame nel mondo – ODV FORLI’
Il 1° febbraio 2025 segna il quarto anniversario del colpo di stato militare in Myanmar, un evento che ha sconvolto il paese e portato ad una crisi politica, economica e umanitaria senza precedenti. Dal rovesciamento del governo civile guidato da Aung San Suu Kyi, il Myanmar è rimasto intrappolato in un ciclo di violenza e repressione, con minoranze etniche e religiose che sopportano il peso maggiore della brutalità della giunta. Tra le comunità più colpite c’è quella dei Chin, una minoranza cristiana che ha subito violenze sistematiche. Villaggi incendiati, chiese distrutte.
Durante il Natale 2024, molti membri della comunità sono stati costretti a celebrare la messa all’interno di grotte per evitare le incursioni militari. Nonostante le difficoltà, la comunità continua a dimostrare una resilienza straordinaria, sostenendosi a vicenda e mantenendo vive le proprie tradizioni religiose. Guardando le immagini di questi fratelli riuniti, vengono in mente le parole di Annalena dal giorno di Natale durante la guerra civile somala: “Quale Natale più vero di questo nell’attesa di un Salvatore che tutti agognano?”
L’assenza di un’efficace protezione internazionale aggrava la loro situazione, lasciandoli esposti a continui abusi. Così come tutte le altre minoranze, infatti, la giunta golpista del Myanmar ha intensificato i bombardamenti aerei nelle aree contese o controllate dai ribelli. L’11 gennaio le forze armate hanno colpito lo Stato del Rakhine, vicino al Bangladesh, bombardando il villaggio di Pazi Gyi durante dei festeggiamenti. Secondo l’Onu, l’attacco ha causato decine di vittime e feriti, tra cui donne e bambini. Un precedente raid dell’8 gennaio aveva provocato 41 morti, 52 feriti e la distruzione di 500 abitazioni nel villaggio musulmano di Kyauk Ni Maw, a 340 km da Yangon, roccaforte dei golpisti.
19,9 milioni di persone in Myanmar necessitano di assistenza umanitaria. Più di 2,6 milioni sono sfollati interni. Restrizioni alla distribuzione di aiuti imposte dalla giunta aggravano ulteriormente la sofferenza delle popolazioni più vulnerabili. Dall’inizio del golpe oltre 28.000 persone sono state arrestate per motivi politici. C’è da evidenziare che noi non siamo esenti, noi italiani che abbiamo nella costituzione un articolo intero sulla pace e il ripudio della guerra. Proprio recentemente la marina del Myanmar ha inaugurato la fregata UMS King Thalun, equipaggiata con un cannone navale Oto Melara da 76 mm, prodotto dall’azienda italiana Leonardo. Questo cannone multiuso è in grado di sparare fino a 120 colpi al minuto. Era presente proprio lui, il generale Min Aung Hlaing, capo della giunta militare e delle Forze armate al varo della nave. L’installazione di un sistema d’arma italiano su una nave da guerra birmana solleva interrogativi riguardo al rispetto delle normative internazionali sull’esportazione di armamenti verso paesi coinvolti in conflitti interni o soggetti a sanzioni.
A questo si sommano i proiettili della italiana Cheddite, sparati in più punti del paese dall’esercito birmano e gli affari
poco chiari della Danieli Metallurgica. Prima di tutto, però, colpisce come possano stare assieme, le parole di monito pur belle del Presidente della Repubblica di fine anno sulla irrinunziabilità della pace, con questa amarissima realtà e il silenzio della quasi totalità della stampa italiana.
In conclusione, il Myanmar, cancellato dalle agende internazionali, si avvicina al quarto anniversario del colpo di stato, rimanendo un campo di battaglia per diritti umani la giustizia e le libertà. Senza un intervento internazionale deciso e
un cambiamento significativo nelle politiche interne, milioni di persone continueranno a soffrire. La lotta di un popolo per la sopravvivenza non è solo una questione locale, ma una battaglia per l’umanità intera. San Suu Kyi affermava che: “la pace nel nostro mondo è indivisibile. Fintanto che le forze negative avranno la meglio su quelle positive in una qualsiasi parte del mondo, siamo tutti a rischio.”