In Italia sono 65.701 i detenuti reclusi (compresi anche quelli in semilibertà) nei 206 istituti di pena del nostro Paese, a fronte di una capienza regolamentare di 47,040 posti, costretti a vivere in celle dove hanno a disposizione meno di 3 metri quadrati.
La questione del sovraffollamento, per la quale l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, non è però l’unico problema.
Tra le cause dell’indegna condizione in cui vivono i detenuti in Italia, c’è sicuramente l’annoso problema della lentezza dei processi penali che provocano la congestione all’interno delle carceri, lentezza che porta all’uso- abuso della carcerazione preventiva, ovvero la reclusione in carcere per ragioni di sicurezza, in attesa che siano espletati i tre gradi di giudizio che non sempre decretano la condanna.
Le criticità alle carceri italiane riguardano anche la mancanza di opportunità di lavori e formazione che, per legge, dovrebbero essere obbligatorie per tutti i detenuti condannati come elemento fondamentale per costruire il reinserimento sociale alla fine della pena. I detenuti stranieri che in Italia sono il 23%, faticano addirittura di più ad accedere alle misure alternative alla detenzione.
Un altro fattore per cui l’Italia è biasimabile riguarda l’elevato numero di decessi e di suicidi: nel solo 2012 sono stati registrati almeno 154 morti nelle carceri italiane, di cui 60 suicidi. Questo è dovuto anche al fatto che molti detenuti convivono con problemi che vanno da disturbi della personalità alla depressione, fino alla psicosi, e che possono portare a conseguenze estreme come l’autolesionismo o il suicidio. Circa un quarto delle persone detenute manifesta, infatti, gravi forme di disturbo psichico ( solo limitandosi ai casi presi in carico dal servizio sanitario interno alle carceri).
Costruire nuove carceri non è però la panacea per tutti i mali. Prima di tutto occorre rivedere il codice penale e in particolar modo le leggi sulla recidiva, sull’immigrazione e sulle droghe. Le tre che generano il maggior flusso di ingressi in carcere. Basta un raffronto con l’estero per capire. In Italia il 38 per cento dei detenuti è stato condannato per aver violato la legge sulle droghe. Percentuale che cala al 14 per cento in Francia e Germania ed è al 28 per cento in Spagna. Proprio dall’estero arrivano esperimenti che possono aiutare a non guardare al sistema carcerario come afflitto dai soliti irrisolvibili problemi. Dalla Germania il basso ricorso alla custodia cautelare, che in Italia contribuisce invece al 42 per cento della popolazione carceraria. Dalla Spagna i cosiddetti “Modulos de respeto”, un particolare regime detentivo che prevede celle aperte tutto il giorno e dà al detenuto maggiori opportunità di socialità, di formazione professionale e di istruzione. Dalla Norvegia le liste d’attesa e le carceri aperte che garantiscono sempre la presenza di posti liberi negli istituti e che, ovviamente, non sono applicate a tutti, ma con a monte una selezione a seconda del rischio di reiterazione del reato e da cui sono esclusi i condannati per reati gravi. Queste potrebbero essere delle soluzioni o almeno degli spunti per migliorare le condizioni italiane, restituendo la dignità e il rispetto che queste persone meritano.
Concludo riportando le parole di Cesare Beccaria, nel suo saggio Dei delitti e delle pene in cui prevede il progressivo reinserimento sociale dell’individuo, escludendo trattamenti contrari al senso di umanità:
“[…] il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile, né di disfare un delitto già commesso […] Le strida di un infelice richiamano forse dal tempo che non ritorna le azioni già consumate? Il fine dunque non è altro che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali. Quelle pene dunque e quel metodo d’infliggerle deve esser prescelto che, serbata la proporzione, farà una impressione piú efficace e piú durevole sugli animi degli uomini, e la meno tormentosa sul corpo del reo”.
Bianca Panichi