Così sono stati definiti dal governo gli esponenti dei gruppi terroristici che rivendicano sempre più attentati nell’area nord del paese. Il potere tergiversa, la popolazione è martirizzata e cerca riparo altrove. Nel frattempo, le multinazionali del gas e le mafie continuano a macinare affari.
Mozambico, la violenza jihadista a Cabo Delgado
La notte del 5 ottobre 2017, una trentina di uomini armati attaccava 3 sedi della polizia nella cittadina di Mocímboa da Praia, nella regione di Cabo Delgado, a 2.700 km da Maputo, nel nord del Mozambico, provocando 16 morti. La settimana successiva, un’imboscata a una truppa dell’esercito lasciava sul terreno altre 11 persone. Il 22 ottobre, veniva colpito un villaggio del distretto di Palma, dove operava la multinazionale americana del gas Anadarko. Sono i primi 3 attacchi da parte di coloro che il governo mozambicano avrebbe cominciato a chiamare «uomini senza volto». In 2 anni e mezzo le aggressioni si sono intensificate e hanno subìto un’accelerazione nei mesi di marzo e aprile 2019. Il settimanale Savana parla di almeno 50 o 70 morti nel distretto di Muidumbe in un solo giorno, l’8 aprile. Si registrano anche i primi assalti ad alcune chiese. Pur non essendoci dati certi, si stima che dal 2017 a oggi le persone uccise siano circa mille e gli sfollati 200mila. La risposta del governo inizia a essere dura: tra il 13 e il 14 maggio le forze di sicurezza del Mozambico hanno ucciso circa 50 militanti jihadisti. Il ministro dell’interno, Amade Miquidade, ha precisato che l’operazione è stata condotta in 7 distretti della provincia in risposta ad almeno 11 attacchi da parte degli insorti. Di cui si sta delineando l’identità: il 23 marzo a Mocímboa da Praia e 2 giorni dopo nel vicino distretto di Quissanga, la bandiera nera del Gruppo stato islamico (Is) è stata issata per alcune ore sulla caserma dell’esercito mozambicano, prima che il gruppo armato tornasse nella boscaglia. Non ci sono evidenze chiare che sia l’Is. Di certo si sa che sono gruppi jihadisti. Il grido di chi soffre è giunto fino a papa Francesco che, il giorno di Pasqua, nel messaggio Urbi et Orbi, ha pregato affinché «il Signore della vita si mostri vicino alle popolazioni in Asia e in Africa, che stanno attraversando gravi crisi umanitarie, come nella regione di Cabo Delgado».
Cosa sta succedendo in quell’area del Mozambico? Non c’è una risposta univoca: il governo mozambicano ha più volte cambiato versione e il dibattito nell’opinione pubblica è aperto riguardo a identità, provenienza e finanziamenti del gruppo armato (o dei gruppi armati). Come in un grande puzzle, del quale non si possiedono tutte le tessere, sistemiamo sul tavolo quelle che possediamo per tentare di delineare un quadro d’insieme.
Un contesto di povertà ed esclusione. Il Mozambico è il 10° paese al mondo con l’indice di sviluppo umano più basso. I dati dell’istituto mozambicano di statistica indicano che nella regione di Cabo Delgado – la più settentrionale delle 10 regioni che compongono il paese – il 64% della popolazione è povero, secondo l’indice di povertà multidimensionale (misura l’accesso a beni di prima necessità e a servizi quali educazione, sanità, acqua potabile ed energia elettrica). La percentuale di povertà di Cabo Delgado è più alta rispetto alla media nazionale. La maggior parte della popolazione vive di un’economia di sussistenza basata su agricoltura, pesca e pastorizia.
Ricchezza di risorse naturali. Cabo Delgado è una regione ricca di risorse naturali. Il Mozambico esporta attualmente l’80% dei rubini in circolazione a livello mondiale e si ipotizza che il distretto di Montepuez, nella regione di Cabo Delgado, contenga il 40% delle riserve di rubini conosciute del pianeta. Legname pregiato, pietre preziose e avorio sono commercializzati illegalmente, ma alla luce del sole, dinanzi ad autorità incapaci di monitorare il territorio e spesso complici.
Il gas. Un giorno dell’ottobre 2011 la regione di Cabo Delgado, da puntino sconosciuto e irrilevante nelle mappe geografiche, è diventata un centro nevralgico della geopolitica globale. È stato il giorno in cui l’Eni ha rivelato la scoperta di un’enorme riserva di gas naturale al largo delle coste del distretto di Palma. Era la prima di una serie di scoperte di giacimenti. Con 150 mila miliardi di m³ di gas stimati nel 2019, le acque al largo di Cabo Delgado rappresentano tra le maggiori riserve di gas del pianeta, che potrebbero fare del Mozambico uno tra i primi 6 esportatori mondiali. Oltre all’Eni, i giacimenti sono controllati dalla statunitense Exxon Mobil, dalla francese Total, dalla cinese Cnpc e dalla giapponese Mitsui. Nel giugno 2019 la Anadarko ha firmato con il governo l’intesa per un piano di investimenti di 25 miliardi di dollari, rilevato poi dalla Total. Una joint venture tra Exxon Mobil ed Eni ha in cantiere un altro progetto dello stesso valore. Per avere un’idea delle cifre astronomiche in gioco, si pensi che il Pil annuo del Mozambico è poco superiore ai 14 miliardi di dollari. Gruppi islamici radicalizzati. Il gruppo che nell’ottobre 2017 attaccò Mocímboa da Praia, si faceva chiamare al-Shabaab, pur non avendo una connessione diretta con l’omonimo gruppo somalo. Era composto in gran parte da giovani mozambicani della zona, reclutati e radicalizzati da jihadisti provenienti da Tanzania, Somalia e Kenya già a partire dal 2012. Alcuni giovani mozambicani poi, sarebbero stati inviati in questi paesi, oltre che in Sudan e Arabia Saudita, assimilando un islamismo di matrice wahhabita e salafita. Di ritorno, sarebbero entrati in conflitto con la comunità musulmana locale, che già nel 2015 aveva segnalato la loro presenza allo stato. Il gruppo si sarebbe in parte autofinanziato con il commercio illegale di legname, pietre preziose e avorio. In una fase iniziale è prevalsa una strategia del terrore, finalizzata a farsi riconoscere e a imporsi, caratterizzata da attacchi notturni a sedi del governo e della polizia, a villaggi di contadini inermi e a moschee, decapitazioni, imboscate alle truppe dell’esercito e ai mezzi delle multinazionali del gas. Il 4 giugno 2019 c’è stata una prima rivendicazione da parte dell’Is, accompagnata dalla dichiarazione esplicita di voler instaurare la shari’a. Nel frattempo, è aumentato il numero dei combattenti e delle cellule che operano sul territorio, con rinforzi dalla regione dei Grandi Laghi, dalla Tanzania e dalla Somalia, oltre che a un numero considerevole di giovani mozambicani. Si è esteso il raggio di azione che oggi interessa 7 dei 17 distretti della regione, con un avvicinamento preoccupante alla città capoluogo, Pemba. C’è stata anche una evoluzione sia della strategia militare (attacchi in pieno giorno, miglior equipaggiamento), sia della strategia mediatica (immagini della guerriglia e dei militanti esultanti vittoriosi, pubblicate sui social). Ad agire è lo stesso gruppo di 2 anni e mezzo fa che si è evoluto, oppure ne sono subentrati altri? Borges Nhamire, ricercatore dello Iese (Instituto de estudos sociais e económicos), ritiene che la cellula iniziale sia stata “riconosciuta” dall’Is e venga ora sostenuta con l’invio di miliziani, denaro e armi. Tuttavia, il governo non ha ancora assunto una posizione ufficiale.
Fragilità dello stato mozambicano. Basta uscire pochi km dai paesi sede di distretto, per accorgersi di come lo stato sia fragilissimo, sia come istituzione che esercita la propria sovranità, sia quale fornitore di servizi. Fragilissimo, a volte inesistente, lo stato si presenta, puntuale ogni 5 anni, poche settimane prima delle elezioni, per poi sparire di nuovo. I militari dell’esercito mozambicano – giovanissimi, malpagati, demotivati e mal equipaggiati – fuggono dinanzi agli attacchi dei jihadisti e, addirittura, sono autori di abusi e vessazioni sulla popolazione locale. I gruppi radicalizzati stanno facendo leva su questo contesto di fondo: dopo una prima strategia del terrore, portano ora avanti una strategia parallela, cercando la simpatia e l’appoggio della popolazione e distribuendo beni di prima necessità dopo gli attacchi alle sedi del governo. Ci sono perfino militari che sono passati dalla loro parte.
Frelimo, un partito tentacolare. Il Frelimo è il partito ininterrottamente al potere dal 1975, anno dell’indipendenza dal Portogallo. È un partito-stato, nel senso che ha occupato lo stato fino a sostituirsi a esso, i cui capi hanno lottizzato il territorio nazionale in base alle aree di interesse economico, gestendo i contratti per spartirsi il bottino col capitale straniero. È un partito dispotico e violento che, dopo le ennesime elezioni fraudolente dell’ottobre 2019, ha fatto perdere al Mozambico 5 posizioni nel ranking mondiale dell’Indice di democrazia, dove è classificato come “regime autoritario”. È legittimo chiedersi perché il presidente della repubblica Filipe Nyusi – originario proprio di Cabo Delgado – si sia pronunciato per la prima volta sul conflitto solo il 29 giugno 2018, vale a dire 9 mesi dopo il primo attacco, quando i morti erano già più di cento. È legittimo chiedersi perché dall’ottobre 2017 a oggi 7 giornalisti (3 stranieri e 4 mozambicani) siano stati arrestati dalla polizia e ogni tentativo di fare chiarezza e studiare il fenomeno da parte di soggetti della società civile o del mondo accademico venga impedito o ostacolato. È legittimo ipotizzare che qualcosa andava tenuto nascosto, forse gli interessi di qualcuno. Fino a che, a un certo punto, la situazione è sfuggita di mano.
I mercenari. L’esercito mozambicano è incapace di fare fronte ai gruppi jihadisti. Già nel 2018 il governo aveva firmato un accordo di 5 anni, stimato in 750 milioni di dollari pagabili con i futuri dividendi del gas, con la Frontier Services Group, l’agenzia di sicurezza privata dello statunitense Erik Prince, “signore della guerra” già fondatore della Blackwater, accusata di crimini di guerra in Iraq. A partire da ottobre 2019 è stata la volta della russa Wagner Group, che già combatte in Ucraina, Siria e Libia. Si sarebbe ritirata dopo alcune perdite umane e mancanza di intesa con l’esercito mozambicano. Da aprile è entrata in scena una compagnia sudafricana, la Dick Advisory Group, che con alcuni elicotteri ha già effettuato incursioni aeree sulle basi dei jihadisti. Come altre zone calde del pianeta, Cabo Delgado si sta popolando di questi soggetti, capaci di trasformare la destabilizzazione in fonte di affari.
Il narcotraffico. Il 14 dicembre 2019, al largo di Cabo Delgado, viene fermata dalle autorità un’imbarcazione che trasportava 1,5 tonnellate di eroina. Il 26 dicembre viene individuata una seconda imbarcazione con 430 kg sempre di eroina. Secondo l’UNODOC (Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine) il Mozambico è da 20 anni uno dei grandi corridoi del traffico internazionale di questa sostanza. Si calcola che circa 40 tonnellate di eroina all’anno partano dall’Afghanistan e dal Pakistan e, via oceano Indiano, giungano in Mozambico, con destinazione Sudafrica e poi Europa. Uno studio dell’Enact finanziato dall’Ue sostiene che un traffico di questo calibro necessita di coperture politiche di alto livello per potere servirsi dei porti e passare le dogane. Joseph Hanlon (docente emerito della London School of Economics and Political Science) documenta come i boss del narcotraffico di eroina abbiano finanziato il Frelimo, almeno fino all’ultimo mandato di Antonio Guebuza. È plausibile chiedersi se l’eroina non sia una possibile fonte di finanziamento anche per i jihadisti della regione.
Il vescovo di Pemba “la chiesa dà voce a chi ha paura”. Di fronte agli attacchi che da 2 anni e mezzo stanno destabilizzando il nord del Mozambico, la Chiesa è tra le poche voci a prendere la parola. Abbiamo intervistato dom Luiz Fernando Lisboa, missionario passionista, brasiliano, dal 2013 vescovo di Pemba, la città capoluogo della regione di Cabo Delgado. Oltre agli attacchi ai civili conferma anche quelli alle chiese? Sì. La prima volta è successo nel novembre 2019 nel villaggio Criação: profanati la chiesa e il tabernacolo. All’inizio di aprile è stata attaccata la chiesa del Sacro Cuore di Gesù, a Nagololo: ha 96 anni ed è la seconda missione della diocesi di Pemba. Ritiene credibili le rivendicazioni dell’Is? O possono essere gruppi diversi? Non ci sono certezze assolute. L’impressione, anche ascoltando opinioni differenti, è che siano diversi gruppi che si sono uniti. Borges Nhamire (Instituto de estudos sociais e económicos) afferma che il numero dei morti ha già superato i mille, mentre quello degli sfollati i 156mila. Non contesto Nhamire. Mentre ritengo che sia molto più alto il numero di sfollati. Il governo, a inizio 2020, parlava di 156mila. Ma da gennaio ad aprile, sono migliaia le persone che hanno lasciato i loro villaggi cercando rifugio nei centri abitati più grandi, fino a qui, a Pemba. Gli sfollati hanno già superato i 200mila. Qual è l’azione della Chiesa in questa situazione? Si è mossa fin dai primi attacchi. In primo luogo, cercando di essere una voce che parla e che riporta in Mozambico e nel mondo quello che sta accadendo. Fin da subito c’è stata una pressione affinché non si parlasse di Cabo Delgado. Ad esempio, alcuni giornalisti sono stati arrestati. La Chiesa, invece, ha sempre cercato di parlare: deve essere come un altoparlante per chi non ha la possibilità o non ha il coraggio di parlare. Ma non c’è solo questo. La Chiesa, attraverso la Caritas diocesana, sta aiutando la popolazione, soprattutto gli sfollati, con cibo, indumenti, medicinali, acqua e tende. Durante questo tempo, tutti i missionari sono rimasti nelle zone di conflitto. Sono stati gli ultimi ad andarsene. Papa Francesco, il giorno di Pasqua, ha parlato specificamente di Cabo Delgado. Qual è il significato di questo intervento? Per noi è stato come un balsamo. Un mese prima avevo scritto al Santo Padre spiegando la situazione di Cabo Delgado e mi aveva risposto attraverso il nunzio apostolico. Mi ha scritto che stava pregando per noi e che era preoccupato. La parola del Papa ha un peso molto forte. È un uomo di Dio e quando chiede che il mondo preghi e faccia comunione con una certa situazione, questo, di fatto, succede.
Chiara Cifani
da Andrea Facchetti – NIGRIZIA NUMERO 6 – GIUGNO 2020