1. Il primo conflitto mondiale quale spartiacque del suo impegno pacifista – È utile rammentare brevemente alcune riflessioni elaborate da prestigiosi intellettuali contemporanei ai fini della stesura di questo saggio. Norberto Bobbio (1909-2004) – professore emerito di Filosofia politica all’Università di Torino – precisò che il pacifismo poteva agire sui mezzi, le istituzioni o gli uomini. Nel primo caso formulò il concetto di «pacifismo strumentale», la cui azione mirava a limitare gli strumenti di guerra (dottrina e politica del disarmo) o a rifiutare drasticamente il ricorso a comportamenti violenti (la teoria della nonviolenza come il Satyagraha di Gandhi).
Invece – puntualizzò ulteriormente Bobbio – il «pacifismo istituzionale» poteva essere utilizzato per criticare lo Stato da un duplice punto di vista: il primo era riconducibile al «pacifismo giuridico» necessario per costruire uno Stato universale in grado di risolvere i conflitti tra Paesi sovrani; il secondo era identificabile con il «pacifismo sociale», secondo cui la guerra costituiva un evento derivante da una certa nozione di Stato caratterizzato dalla lotta di classe tra borghesia e proletariato (nelle relazioni interne) e dall’espansione imperialista (nelle relazioni esterne). Infine, il filosofo torinese delineò il concetto di «pacifismo finalistico» secondo cui la pace poteva essere raggiunta attraverso un’analisi antropologica: la vera ragione della guerra andava ricercata nei difetti morali dell’uomo (Lev Tolstoj) o negli impulsi primitivi della natura umana (Sigmund Freud): a tale proposito, Bobbio utilizzò rispettivamente le espressioni di «pacifismo eticoreligioso» e «pacifismo scientifico».
Nella Enciclopedia del Novecento Mulford Quickert Sibley (1912-1989), politologo presso l’Università del Minnesota, operò una distinzione tra «pacifismo politico» e «pacifismo non politico». Il primo enfatizzava le potenzialità dell’attività parlamentare ed era definito anche come «pacifismo della trasformazione», mentre il secondo comportava una limitazione delle esigenze economiche dei cittadini, proponendo loro di vivere in comunità separate dai centri industriali e dalla vita urbana; in sostanza, secondo Sibley il «pacifismo non politico» implicava «un’etica dell’isolamento e della semplicità». In The New Encyclopædia Britannica Wilhelm Emil Mühlmann (1904-1988), professore emerito di Sociologia e Antropologia presso la Rupert Charles University di Heidelberg, identificò un «pacifismo integrale» che biasimava la guerra e la violenza come mezzo per risolvere i conflitti in ogni circostanza; altrettanto ferma fu la sua condanna nei confronti del «semi-pacifismo» che, invece, giustificava le guerre in determinati casi; ad esempio, quando esse apparivano «giuste» o di «difesa», oppure contro «non credenti» o «ribelli».
Sulla stessa lunghezza d’onda può essere considerato il «pacifismo assoluto» che ebbe tra i suoi sostenitori il filosofo americano Michael Allen Fox; egli condannò il concetto di moralità della guerra: «Persino un’azione militare volta a proteggere le persone da gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani» – sottolineò Fox – «non [poteva] essere giustificata». Non distanti apparvero le tesi dello studioso e attivista pacifista statunitense David Cortright, il quale coniò il concetto di «pacifismo realistico» per enfatizzare l’assoluta necessità di evitare la guerra nell’era nucleare; sebbene in altri tipi di conflitto – Cortright precisò ulteriormente – «l’uso della forza, vincolato da rigorosi standard etici, [poteva] talvolta essere giustificato per motivi di autodifesa e protezione di persone innocenti». Quest’ultima riflessione ci permette d’introdurre il concetto di «pacifismo contingente» che ipotizzò la permissibilità, se non addirittura la necessità della guerra in alcuni casi; esso fu sostenuto dal filosofo statunitense Larry May a partire dalla teoria della guerra giusta: egli ammise «la possibilità di una guerra giusta», ma «non nelle circostanze attuali» considerando il potenziale distruttivo delle armi nucleari. Non bisogna poi dimenticare la distinzione tra «pacifismo particolare» e «universale»: nel primo caso, i pacifisti rivendicarono le loro tesi come meramente personali e, pertanto, non condannarono a priori il ricorso alle armi; nel secondo invece essi biasimarono incondizionatamente la guerra. A tale proposito, Eric Reitan – filosofo all’Oklahoma State University – concepì il pacifismo come un «impegno puramente personale per la non violenza» e che, dunque, non poteva essere percepito come un «obbligo generale di astensione dalla violenza». Infine Johan Galtung e David Boersema evidenziarono la distinzione tra «pacifismo negativo» e «positivo»: il primo era riconducibile alla mera assenza di violenza o guerra, mentre il secondo alla costruzione e al consolidamento di relazioni armoniose tra Stati.
Tali riflessioni rappresentano una preziosa bussola di orientamento per comprendere il pacifismo di Bertrand Russell (1872-1970) durante la Prima Guerra Mondiale, un evento che costituì un vero e proprio spartiacque del suo impegno contro la guerra. Nel saggio intitolato Experiences of a Pacifist in the First World War contenuto in Portraits from Memory and Other Essays (1956) egli sottolineò che la propria vita poteva essere «nettamente divisa in due periodi», vale a dire prima e dopo lo scoppio del primo conflitto mondiale. Il 3 agosto 1914 il ministro degli Esteri britannico Edward Grey pronunciò un discorso alla Camera dei Comuni, durante il quale condannò senza mezzi termini l’invasione attuata dal Reich gugliemino nei confronti del Belgio, palesando i rischi del non intervento da parte del Regno Unito: «Non credo […] che alla fine di questa guerra, anche se restassimo neutrali, saremmo in grado […] di usare la nostra forza» per «impedire all’Europa occidentale di cadere sotto il dominio di un’unica potenza». Grey ricevette il sostegno del Parlamento e il 4 agosto la Gran Bretagna dichiarò guerra alla Germania; lo stesso giorno Russell scrisse una lettera per «The Nation», giornale dell’intellighenzia liberale, esprimendo il proprio senso di disillusione e criticando il governo presieduto da Herbert Henry Asquith. Gli «amici del progresso» – sottolineò con implicito riferimento ai sostenitori del Partito Liberale – erano stati «traditi» dai «leaders [da loro stessi] eletti», poiché avevano condotto precipitosamente il Paese in guerra; quindi, «nessun esponente che potesse considerarsi autenticamente liberale [avrebbe più dovuto] sostenere i membri dell’attuale Gabinetto». Nonostante avesse fino ad allora condiviso la causa neutralista, «The Nation» si rifiutò di pubblicare tale missiva; il suo editore Harold John Massingham decise invece di dare alle stampe un altro articolo di Russell dai toni meno accesi: The Rights of War. Quanti avevano osservato la folla londinese durante le notti precedenti la Dichiarazione di Guerra – precisò il filosofo gallese in questo scritto – constatarono che «un intero popolo, fino ad allora pacifico e umano», era precipitato in pochi giorni «lungo il ripido pendio della primitiva barbarie»; ma il vero bersaglio della sua polemica era la «diplomazia segreta» del Foreign Office, che aveva generato «tutta questa follia, rabbia, morte violenta nella nostra civiltà e nelle nostre speranze». Russell ritenne che le misure autoritarie adottate dal governo britannico, in particolare il Defence of the Realm Act dell’8 agosto, potessero infliggere un colpo mortale ai valori fondanti dell’età vittoriana, ponendo fine a un’era di progressiva affermazione delle istituzioni democratiche e difesa delle libertà personali. A tale proposito, Leonard Woolf sottolineò: «Nel decennio che precedette la guerra del 1914 […] sembrava che gli esseri umani fossero realmente sul punto di diventare civilizzati»; invece, i nemici del progresso – precisò sarcasticamente Woolf – avevano provocato la guerra e quindi «rinviato di almeno cento anni il pericolo di civilizzazione».
Dopo il risoluto discorso di Philip Morrell, tenuto il 3 agosto 1914 alla Camera dei Comuni, alcuni esponenti politici e scrittori di primo piano contrari alla guerra – tra i quali il leader laburista Ramsay MacDonald, il quacchero Joseph Rowntree, il fondatore della “Neutrality League” Norman Angell, il giornalista Edmund Dene Morel e il deputato liberale Charles Trevelyan – contribuirono alla creazione dell’“Union of Democratic Control” (UDC), un gruppo di pressione sorto con l’obiettivo di sostenere una politica estera meno aggressiva. Il “British Foreign Policy, Anti-War Party Manifesto” dell’UDC conteneva punti programmatici condivisi da Russell: una politica estera sotto il controllo parlamentare, l’adozione di nessuna misura punitiva nei confronti dei Paesi sconfitti, la necessità di ristabilire relazioni pacifiche tra le potenze europee; quindi egli aderì all’UDC. Nel pamphlet intitolato War, the Offspring of Fear, Russell concepì il conflitto appena avviato alla stregua dell’invasione barbarica dell’Impero Romano e delle Crociate, più precisamente una «guerra tra Teutoni e Slavi, in cui alcuni Paesi – quali il Regno Unito, la Francia e il Belgio – [erano] stati indotti a schierarsi con gli Slavi». E nuovamente egli biasimò senza mezzi termini le ingannevoli trame diplomatiche attraverso cui il governo britannico aveva ottenuto il consenso della Camera dei Comuni a entrare in guerra, senza informare l’opinione pubblica; proprio per questo motivo, «la diplomazia segreta [doveva] cessare». Nell’articolo intitolato Why Nations Love War (1914), scritto per la rivista mensile «War and Peace» di Norman Angell, Russell iniziò ad analizzare le cause psicologiche della guerra: a causa di istinti primitivi – quali il senso di diffidenza e timore verso i popoli stranieri, il desiderio di eccitazione, la ricerca del potere e dell’onore, l’appassionata devozione nei confronti della propria nazione – l’impulso che induceva gli uomini a intraprendere la guerra era inestirpabile; quindi, ipotizzò che «una pace duratura [poteva] essere raggiunta solo attraverso un processo di educazione popolare». Ad ogni modo, Angell rappresentò un punto di riferimento rilevante per Russell; in un mondo sempre più condizionato dalla interdipendenza economica delle nazioni civili – l’autore di The Great Illusion aveva argomentato pochi anni prima – i conflitti destinati a rafforzare supremazie politiche, nonché ambizioni imperialistiche e coloniali, apparivano oramai futili e anacronistici. Il pacifismo di Angell non era dunque di natura etica, ma utilitaristica: infatti, non gli interessava se la guerra fosse giusta o ingiusta, morale o immorale; più pragmaticamente la considerava inutile. In tale ottica, Russell condivideva le tesi di Richard Cobden, secondo cui la pace e gli interessi britannici sarebbero stati tutelati in maniera più efficace attraverso l’affermazione a livello internazionale della politica del libero scambio e della pratica di non interferenza negli affari europei. D’altronde, l’assunto di base della diplomazia Tory e Whig, da George Canning negli anni Venti del diciannovesimo secolo fino a Edward Gray nel 1914, era che gli interessi imperialisti della Gran Bretagna sarebbero stati efficacemente garantiti mantenendo un equilibrio di potere tra i principali Stati europei.
Nel gennaio 1915 Russell pubblicò un dettagliato articolo dal titolo Ethics of War su «The International Journal of Ethics»; contrariamente a quanto immaginato dall’opinione pubblica – egli precisò – i trattati venivano rispettati solo fino quando «[era] conveniente osservarli». I tradizionali «giochi diplomatici» che determinavano l’entrata di un Paese in guerra ignoravano se una simile decisione avrebbe realmente perseguito il bene dell’umanità; mentre era proprio «tale questione che doveva essere valutata per considerare se una guerra poteva essere giustificata o meno». E inoltre egli evidenziò che «il principio di non resistenza» non rappresentava solo un «ideale religioso [seppur] distante», ma soprattutto un «percorso di saggezza pratica» tra «nazioni civili». Il filosofo statunitense Ralph Barton Perry non condivise tali riflessioni, tant’è vero che nell’aprile 1915 egli scrisse Non-Resistance and the Present War: A Reply to Mr. Russell; in tale occasione, Perry definì la guerra una «calamità assoluta», considerando la Gran Bretagna un Paese in grado di rispettare scrupolosamente i trattati e le convenzioni internazionali e, quindi, condannare «una nazione che li viola[sse]». Inoltre, criticò Russell, poiché il filosofo gallese era «disposto a prevedere […] anche la perdita dell’indipendenza politica» del suo Paese, proponendo di «coniugare alla non resistenza […] il costituzionalismo inglese». Russell rispose a tali critiche nell’ottobre 1915 attraverso l’articolo The War and Non-Resistance: A Rejoinder to Professor Perry; egli riconobbe che «la violazione dei trattati [costituiva] un crimine», poiché mediante la loro osservanza si sarebbe potuta favorire la diffusione di una sorta di «legge tra le nazioni». Tuttavia, Russell sottolineò che non occorreva «intraprendere una crociata universale contro altre nazioni che non li rispettavano». Quanto alle tesi di Perry contro la non resistenza, sostenne che il suo interlocutore ignorava i limiti che egli stesso aveva già sottolineato, vale a dire che «la dottrina della non resistenza [era] applicabile solo alle guerre tra Stati civili».
- Politica del disarmo, principio di non-resistenza e impulsi umani
Russell formulò altresì un j’accuse contro coloro i quali avevano tradito la loro missione di intellettuali, vale a dire di educatori e riformatori delle coscienze, nonché custodi di valori universali quali la pace e la democrazia; nell’articolo An Appeal to the Intellectuals of Europe (1915), egli criticò il «totale distacco» mostrato dalla maggior parte del mondo intellettuale in occasione dello scoppio della Grande Guerra: a causa della fedeltà al proprio Paese, il loro «pensiero [era] divenuto schiavo dell’istinto»; tant’è vero che «i guardiani del tempio della Verità [erano] stati i primi a promuovere il culto dell’idolatria». Basti pensare che i tedeschi avevano enfatizzato il brutale egoismo nazionalista dei britannici, presentandosi come gli strenui difensori della civiltà. Quest’ultimi, a loro volta, avevano evidenziato il feroce militarismo del Secondo Reich, considerandosi paladini dell’inviolabilità dei trattati e dei diritti degli Stati minori.
Le tesi di Russell furono biasimate da Gilbert Murray, filologo inglese dell’Università di Oxford, attraverso il saggio The Foreign Policy of Sir Edward Grey 1906-1915; la politica britannica – egli scrisse con implicito riferimento a Russell – presentava un tratto saliente: anche nei momenti di crisi vi erano uomini che non esitavano a criticare severamente il proprio Governo, giustificando all’occorrenza le decisioni dei Paesi ostili. Quindi – precisò Murray con rammarico – parte dell’intellighenzia del Regno Unito considerava Edward Grey, unitamente al governo britannico, «il nemico centrale della razza umana», mentre «il Kaiser un prigioniero sul banco degli imputati». Solo la loro miopia impediva di considerare l’invasione tedesca del Belgio l’evento scatenante di un conflitto su vasta scala.
Già nel dicembre 1915 Russell pubblicò l’opuscolo The Policy of the Intente, 1904-1914: A Reply to Professor Gilbert Murray; il «nemico centrale del genere umano» – egli affermò – appariva come un «concetto melodrammatico»; quindi, era «più vantaggioso essere consapevoli dei propri difetti» per non fomentare ulteriormente l’odio da entrambe le parti. Inoltre, Russell precisò che egli aveva «costantemente considerato [il Kaiser] come uno dei simboli della malvagità umana»; piuttosto, se Murray avesse argomentato correttamente le proprie tesi, avrebbe intuito che «la sola responsabilità del Kaiser [non era] sufficiente a dimostrare l’immacolata assenza di peccato del nostro Ministero degli Esteri [Edward Grey]». Una dura critica al pacifismo di Russell fu espressa altresì da David Herbert Lawrence. Russell aveva avviato una fitta corrispondenza con il grande scrittore inglese che sembrava preludere a un duraturo rapporto culturale; nel giugno 1915 essi discussero sulla possibilità di tenere una serie di conferenze pubbliche contro la guerra. Russell inviò a Lawrence una copia del suo articolo The Danger to Civilization del 4 settembre 1915, in cui sottolineava l’effetto catastrofico prodotto dal conflitto in corso sulla civiltà europea; se esso non si fosse rapidamente concluso, «la capacità mentale delle generazioni future [sarebbe] risultata assai inferiore rispetto a quella delle generazioni passate»; di fronte alla «fine di una grande epoca […] il futuro dell’Europa non [sarebbe] stato paragonabile con il suo passato». Alla luce di tali considerazioni, apparvero sorprendenti le riflessioni di Lawrence contenute in una lettera del 14 settembre in cui accusò Russell di nutrire desideri bellicosi: «Tu rappresenti veramente lo spirito esasperato della guerra» e «ciò che desideri è di attaccare e colpire, come il soldato con la baionetta»; e rincarando ulteriormente il suo personale attacco Lawrence asserì: «Sei solamente pieno di desideri repressi, che sono diventati selvaggi e antisociali».
Al contrario, Russell ricevette il sostegno del “Bloomsbury Group” che annoverava prestigiosi scrittori, filosofi, economisti e artisti quali Virginia e Leonard
Woolf, John Maynard Keynes, Edward Morgan Forster, Roger Fry e Lytton Strachey. Questo gruppo – come specificato dalla critica letteraria dell’Università di Oxford Hermione Lee – aveva reagito contro «le abitudini borghesi […] e le convenzioni della vita vittoriana». Keynes aveva ammirato le intuizioni del filosofo gallese riguardanti la logica simbolica; a sua volta, Leonard Woolf affermò che Russell aveva la mente più brillante di chiunque altro avesse mai conosciuto. Già nel 1907 il “Bloomsbury Group” lo aveva sostenuto nella sua battaglia a favore del suffragio femminile in occasione delle elezioni politiche in cui Russell si era presentato come candidato indipendente; ora ne condivideva pure il suo pacifismo.
Dopo la caduta del governo liberale presieduto da Herbert Henry Asquith (25 maggio 1915) e la nascita di una nuova coalizione guidata dallo stesso Asquith (comprendente pure il Partito Conservatore e Laburista), Russell non mancò di criticare quella parte della stampa britannica che aveva sostenuto l’entrata in guerra del Regno Unito. A tale riguardo, egli biasimò il magnate dell’editoria Alfred Charles William Northcliffe in un articolo pubblicato su «The Labour Leader»; infatti, tra il 1915 e il 1916, i giornali di Northcliffe si erano schierati a favore dell’istituzione di un Ministero delle Munizioni presieduto da David Lloyd George. Nell’articolo War and Non-Resistance, apparso su «The Atlantic Monthly» nell’agosto 1915, Russell iniziò ad approfondire (come si evince dal titolo) uno dei temi che contraddistinse maggiormente il suo pacifismo. Il principio di non-resistenza applicato nella «sua forma estrema dai Quaccheri e da Tolstoj» – asserì il filosofo gallese – avrebbe potuto favorire «una difesa molto più efficace […] di quella garantita dagli eserciti e dalle marine»; ma era obiettivamente difficile prevedere un simile scenario, poiché ciò avrebbe comportato un enorme «sforzo immaginativo»; tale previsione poteva invece concretizzarsi attraverso l’istituzione di un «governo mondiale» in grado di garantire «la sottomissione con la forza», dal momento che parte dell’opinione pubblica era oramai consapevole che «la sottomissione [era] preferibile rispetto all’anarchia internazionale». E proprio il problema dell’anarchia internazionale, più precisamente dal punto di vista della rivalità anglo-tedesca, fu analizzato da Russell in due articoli del 1915. In Can England and Germany Be Reconciled After the War? egli biasimò l’antagonismo navale tra i due Paesi, proponendo nel dopoguerra l’istituzione di una marina internazionale neutrale in grado di sorvegliare e proteggere le acque di entrambi gli Stati. E sulla stessa lunghezza d’onda egli scrisse The Future of Anglo-German Rivalry: il destino della civiltà – egli affermò – poteva essere garantito attraverso «un esercito e una marina internazionale per scopi di polizia». Ma tra le grandi potenze «l’orgoglio finiva per prevalere rispetto all’interesse personale»; tanto che gli uomini temevano di perdere «l’opportunità di bullismo offerta dal [loro] esercito e marina».
Uno degli scritti pacifisti più rilevanti di Russell fu l’opuscolo intitolato The Philosophy of Pacifism (1916), il cui contenuto era riconducibile al discorso pronunciato durante la “Conference of the Pacifist Philosophy of Life” svoltasi a Londra presso la Caxton Hall l’8 e il 9 luglio 1915. In questo saggio egli suddivise «gli argomenti morali contro la guerra» in «tre classi». Quanto ai suoi «mali intrinseci», era incomprensibile come gli uomini potessero tollerarli; ciò poteva essere giustificato tutt’al più mediante «la cecità in tempo di guerra»: l’odio, la crudeltà, l’ingiustizia e la violenza erano riconosciuti come «vizi» in tempo di pace, ma non appena un conflitto scoppiava erano «universalmente esaltati e fomentati». In secondo luogo, egli sottolineò «l’inutilità etica» di umiliare una nazione; il desiderio di punire il Paese nemico aveva una «origine psicologica», vale a dire la volontà vendicativa di infliggergli sofferenza, ma era impossibile immaginare che una «punizione presentasse un carattere riformatore».
In terzo luogo, occorreva essere consapevoli dell’«impossibilità pratica di distruggere con la forza» ciò che aveva «valore reale nella vita di una nazione»; se i Paesi avessero applicato «una resistenza meramente passiva» avrebbero potuto ulteriormente scoraggiare l’uso della forza nelle relazioni internazionali, suscitando «un senso di vergogna nella nazione aggressiva». All’inizio del 1916 Russell criticò il Military Service Act approvato dal secondo governo Asquith (esso entrò in vigore il 2 marzo); tale legge prevedeva l’adempimento del servizio militare per tutti gli uomini di età compresa tra i diciotto e i quarantuno anni, a meno che non fossero sposati o vedovi con figli. Era altresì prevista la cosiddetta «clausola di coscienza» che delineava tre livelli di esonero: in primo luogo, quello assoluto che era solitamente riservato a quanti erano inabili dal punto di vista fisico; in secondo luogo, quello relativo che implicava l’arruolamento nel “NonCombatant Corps”, composto da obiettori di coscienza che prestavano servizio dietro le linee di combattimento, scavando ad esempio trincee; infine, il terzo tipo di esonero prevedeva l’espletamento di lavori di importanza nazionale, come all’interno delle aziende agricole o delle fabbriche. A tale proposito, nel suo saggio dal titolo The State contenuto nei Principles of Social Reconstructions (1916), Russell definì emblematicamente il servizio militare obbligatorio come «forse l’estrema manifestazione del
potere statale». A questo proposito – egli argomentò ulteriormente – appariva quanto meno «sorprendente» che la maggior parte degli uomini abili al servizio militare avesse poi finito per «tollerare un sistema che li sottometteva a tutti gli orrori del campo di battaglia» ogniqualvolta che il loro governo glielo ordinava.
Proprio i Principles of Social Reconstructions, composto da una serie di otto conferenze tenute da Russell presso la Caxton Hall tra il 18 gennaio e il 7 marzo 1916, costituì uno dei contributi più originali del suo pensiero politico e sociale. Uno dei temi centrali di queste lezioni – egli puntualizzò fin dalla prefazione – fu la distinzione tra impulsi «creativi» e «possessivi», insieme alla convinzione che «l’affermazione della creatività avrebbe dovuto rappresentare il principio riformatore in ambito politico ed economico». Gli uomini generalmente agivano sotto la spinta di impulsi ciechi e inconsci, nonché di desideri consci e diretti; a suo parere, non era necessario reprimere gli impulsi che potevano indurre a combattere una guerra, ma reindirizzare la loro energia e vigore. Russell analizzò le cause
psicologiche della guerra anche nel celebre saggio Political Ideas (1917); utilizzando un linguaggio assai simile, egli evidenziò due diversi tipi di impulsi: quelli «possessivi» riconducibili all’acquisizione di beni privati non sempre disponibili, poiché limitati in natura (essi erano fomentati dal desiderio di proprietà), e quelli «creativi» o «costruttivi» che potevano essere sempre soddisfatti attraverso l’acquisizione di nuove conoscenze. La società ideale sarebbe stata quella in cui «gli impulsi creativi ricoprivano un ruolo predominante rispetto agli impulsi possessivi». Purtroppo – argomentò Russell – le istituzioni politiche si basavano generalmente sui concetti di «proprietà e potere» e, anche se dotate dalla natura di «grandi potenzialità creative», erano in realtà «intossicate dal veleno della concorrenza». Dunque, le istituzioni politiche avrebbero dovuto favorire «le opportunità [necessarie per l’affermazione] degli impulsi creativi», e diminuire «le prospettive per lo sviluppo degli istinti possessivi» quali la forza e il potere.
Nel marzo 1916 Russell aderì alla “No-Conscription Fellowship” (NCF), organizzazione pacifista britannica fondata da Fenner Brockway e Clifford Allen nel novembre 1914. L’intellettuale gallese si adoperò per sensibilizzare l’opinione pubblica nei confronti della causa perorata dall’NCF; in una appassionata lettera pubblicata nella primavera del 1916 su «The Nation», egli considerò la NCF «un’associazione spontanea di coloro che credevano nella sacralità della vita umana e nella fratellanza tra gli uomini», e i cui membri desideravano «costruire una [nuova] Gerusalemme nella verde e ridente terra inglese». La sua battaglia contro la coscrizione obbligatoria avrebbe assunto toni più accesi quando, nel maggio 1916, il governo britannico approvò una legge che prevedeva il reclutamento anche degli uomini sposati; lo stesso mese Russell pubblicò un articolo dall’emblematico titolo War as an Institution, in cui dichiarò che la guerra rappresentava oramai una delle «istituzioni permanenti» della società, allo stesso modo in cui lo era il Parlamento. Inoltre, coerentemente con il suo pacifismo scientifico, egli puntualizzò che la guerra appagava un lato oscuro della natura umana (tanto da rendere improbabile la sua totale scomparsa), poiché essa «[scaturiva] da un impulso piuttosto che da un calcolo dei vantaggi che si potevano trarre». Pertanto, una pace duratura poteva essere garantita solo attraverso l’istituzione di una «federazione mondiale», poiché l’esistenza di Stati dotati di sovranità assoluta (ciascuno dotato di un proprio esercito), non avrebbe permesso di superare l’anarchia internazionale. Allo stesso tempo, egli era consapevole che tale idea non sarebbe stata facilmente recepita dai singoli governi, poiché la «devozione alla nazione» – precisò ulteriormente – costituiva «la religione più profonda e diffusa dell’attuale epoca».
Durante una serie di conferenze tenute nel Galles meridionale nell’estate del 1916, sponsorizzate dalla NCF, Russell auspicò lo svolgimento dei negoziati di pace da parte del governo britannico. Per questo motivo egli venne processato; gli fu inflitta una multa di cento sterline (o una condanna di due mesi di reclusione). Inoltre, venne esonerato dal suo incarico al Trinity College e non poté recarsi all’Università di Harvard per via del passaporto negatogli. Poiché la fine del conflitto non si profilava all’orizzonte, Russell considerò gli Stati Uniti come il Paese che meglio avrebbe potuto incarnare gli ideali democratici europei e proporre (e imporre) una soluzione ai Paesi belligeranti in virtù della sua potenza economica e militare. Non a caso, il 4 dicembre 1916 egli scrisse una “Lettera aperta al presidente Wilson” pubblicata su «Survey»; a distanza di oltre due anni dall’inizio della guerra – egli puntualizzò – «il terrore e la ferocia» erano oramai assimilabili alla «stessa aria che respiravamo»; se non si fosse intervenuti rapidamente per sconfiggere la «furia della passione nazionalista», la civiltà europea rischiava di «perire completamente come quando Roma era crollata a causa delle invasioni barbariche». Dal momento che «il desiderio di pace [era] quasi universale», la situazione di stallo che
impediva la fine del conflitto poteva essere superata solo attraverso la mediazione di una potenza esterna: e proprio il governo degli Stati Uniti avrebbe avuto l’autorevolezza per «farsi garante della pace».
In due articoli intitolati The Momentum of War e Why the War Continues, pubblicati tra il 1916 e il 1917, Russell approfondì nuovamente il tema degli impulsi umani (con particolare riferimento a quelli distruttivi) quale causa della guerra. Era necessario – egli sottolineò nel primo articolo – sensibilizzare i cittadini sulle «passioni gemelle della paura e dell’odio»; se l’odio fomentato dai militaristi non fosse stato sconfitto, «nessuna pace duratura poteva essere assicurata». Nel secondo evidenziò la crescente brama di vendetta esistente nell’opinione pubblica britannica, il cui desiderio di punire la Germania rappresentava meramente «una forma di orgoglio»; l’uomo della strada auspicava che la pace potesse essere raggiunta solo dopo la «vittoria», poiché lo avrebbe messo nelle condizioni di «castigare il peccato». Sulla stessa lunghezza d’onda è riconducibile l’articolo del 1917 intitolato Is Nationalism Moribund? scritto da Russell su richiesta del critico letterario americano Van Wyck Brooks per il mensile statunitense «The Seven Arts». In tale occasione, il filosofo gallese evidenziò le «radici oscure della natura umana»; inglesi, francesi e tedeschi – egli precisò – si consideravano «paladini» rispettivamente delle istituzioni parlamentari, dell’illuminismo intellettuale diffuso dalla Rivoluzione del 1789 e della Kultur quale sinonimo di conoscenza. Ma la convinzione secondo cui la nazione era «custode speciale di un’idea fondamentale», derivava solo da «un’illusione» alimentata da «orgoglio e interesse personale»; infatti, al di sotto delle «credenze illusorie del nazionalismo», vi era «una sottostruttura tipica dell’istinto del gregge» che era parte della più ampia struttura psicologica della natura umana. Tuttavia, Russell dubitava che il nazionalismo
si sarebbe pienamente affermato nei successivi cento anni; bastava pensare all’esempio degli Stati Uniti d’America di cui egli apprezzava l’organizzazione federale quale garanzia di pacifica convivenza. Inoltre, egli trovò ulteriore conferma del lato più oscuro della natura umana nella psicologia freudiana; sottolineando la sua affinità ideologica con il padre della psicoanalisi moderna, scrisse: «Sto leggendo Freud […]. La psicologia dell’opinione pubblica […] è un campo quasi incontaminato» tanto che «vi è spazio per un lavoro d’indagine veramente rilevante».
- Il dibattito sulla rivoluzione russa al di là della Manica
Le notizie riguardanti la rivoluzione russa giunsero in Inghilterra nel marzo 1917; la Camera dei Comuni accolse con favore il rovesciamento del regime zarista, vale a dire di «un militarismo autocratico che minacciava la libertà dell’Europa». Il governo provvisorio russo, presieduto inizialmente dal principe Georgy Lvov e poi da Alexander Kerensky, concesse un’amnistia generale per i reati politici e religiosi, la libertà di parola e stampa, nonché la libertà di costituire sindacati e scioperare. Con la collaborazione della pacifista inglese Catherine Marshall, Russell istituì il “Comitato per la cooperazione anglo-russa” che intendeva trarre ispirazione dalla “Carta della libertà” russa emanata dai rivoluzionari. Tant’è vero che fu presto redatta la “Britain’s Charter of Freedom”; essa prevedeva la liberazione dei prigionieri irlandesi e degli obiettori di coscienza, la cessazione dei procedimenti giudiziari intrapresi ai sensi del Defense of Realm Act e, infine, la richiesta di suffragio universale. La fiducia di Russell nei confronti del governo provvisorio russo crebbe quando, nel maggio 1917, esso sollecitò una «pace senza annessioni o indennità, sulla base dell’autodeterminazione dei popoli» (formula di Pietrogrado). Grazie soprattutto all’iniziativa di Francis Johnson dell’Indipendent Labour Party (ILP) e di Albert Inkpin del British Socialist Party (BSP), il 3 giugno venne convocata la Convenzione di Leeds. Tale evento radunò oltre tremila delegati socialisti provenienti dall’ILP e dal BSP, uniti nelle loro convinzioni pacifiste; tra i relatori erano presenti Ernest Bevin, Charlotte Despard, Willie Gallacher, Ramsay MacDonald, Tom Mann, Dora Montefiore, Sylvia Pankhurst, Bertrand Russell e Philip Snowden. Il sociologo britannico Ralph Miliband considerò la Convenzione di Leeds «forse il più straordinario raduno» di tale periodo; essa accolse con favore il tentativo della rivoluzione russa di difendere le libertà civili, auspicò la rapida fine della prima guerra mondiale e votò per l’istituzione in tutto il Paese di “Consigli dei delegati degli operai e dei soldati” in grado di lavorare per la pace e «la completa emancipazione politica ed economica del lavoro internazionale». A Leeds Russell credette realmente che la rivoluzione russa avrebbe comportato un profondo cambiamento in campo politico, sociale ed economico a livello internazionale, rimuovendo così le cause della guerra. Oltre ai suoi editoriali settimanali per «The Tribune», il settimanale del NCF, egli iniziò la sua collaborazione con «The Herald» che, il 23 giugno 1917, pubblicò un Manifesto; Russell contribuì alla stesura di questo documento che, tra le altre misure, prevedeva l’uguaglianza di reddito tra i cittadini e una «democrazia completa» in cui tutti i titoli nobiliari sarebbero stati aboliti. Nell’estate dello stesso anno egli confessò al filosofo britannico Herbert Wildon Carr che, a partire dalla rivoluzione russa, «ogni speranza di un vero spirito internazionale» si stava diffondendo in Europa insieme a «un sistema economico molto più umano». In tale prospettiva – sottolineò lo storico britannico Royden
Harrison – al tempo della Convenzione di Leeds, Russell aveva già «spostato la sua enfasi da considerazioni psicologiche a considerazioni socio-economiche nel render conto della guerra».
Influenzato dallo “spirito di Leeds”, il 10 luglio 1917 Russell decise di aderire all’“Independent Labour Party”; questa decisione segnò il suo allontanamento dal “Liberal Party” di cui suo nonno Earl Russell, due volte Primo Ministro, era stato esponente di spicco. Durante l’estate egli approfondì il rapporto tra pacifismo e rivoluzione economica e politica attraverso una trilogia di articoli pubblicati su «The Tribune»: Pacifism and Economic Revolution, A Pacifist Revolution? e Pacifism and Revolution. Nonostante il nuovo percorso delineato a Leeds fosse ancora allo «stadio iniziale» – affermò nel primo articolo – il principio della «fratellanza tra gli uomini» avrebbe potuto favorire la creazione di «un sistema economico più equo»; in altri termini, era impossibile dubitare che «l’abolizione del capitalismo avrebbe rappresentato un passo decisivo verso il superamento della guerra», a differenza della politica del governo britannico impegnato nella «guerra per porre fine alla guerra». Nel secondo articolo Russell affermò che attraverso «lo spirito rivoluzionario si stava conquistando la pace»; infatti, l’attuale sistema economico aveva concentrato «un enorme potere nelle mani dei proprietari terrieri e capitalisti» e, di conseguenza, aveva condannato la maggior parte della popolazione a «una vita che presenta[va] esigue possibilità per una libera crescita personale». Nel terzo articolo egli analizzò la potenziale coesistenza tra pacifismo e rivoluzione: «lo spirito rivoluzionario internazionale» – egli precisò ottimisticamente – era diventato «il fattore più rilevante per favorire la pace», poiché il ricorso alla violenza non costituiva più la premessa per attuare la rivoluzione, il cui successo dipendeva oramai dalla «forza di nuove idee sulle menti umane». Infatti, attraverso la rivoluzione russa «le vittime del vecchio sistema» avevano iniziato a comprendere che princìpi quali «libertà, uguaglianza e fraternità» delineavano uno scenario non più basato su «schiavitù, ingiustizia e antagonismo». Ad ogni modo, attraverso questi tre articoli era possibile riscontrare in Russell un atteggiamento antitetico: intellettualmente, egli era fautore di un internazionalismo socialista che auspicava l’abolizione del capitalismo e la ridistribuzione del potere economico, unitamente alla sconfitta del militarismo; emotivamente e metodologicamente, tuttavia, sosteneva un pensiero liberale, poiché credeva nel valore della libertà personale, nella forza delle idee e della ragione. Tuttavia, il suo sostegno nei confronti della politica rivoluzionaria non sarebbe durato a lungo; il 28 luglio 1917 fu organizzato un meeting presso la Brotherhood Church in Southgate Road (Londra) per eleggere un “Consiglio dei lavoratori” sulla falsariga di quelli proposti a Leeds. Un migliaio di rivoltosi, molti dei quali soldati e marinai, assalirono i circa duecentocinquanta delegati (tra cui Russell), cosicché la riunione fu sciolta; in tale occasione, egli scrisse all’aristocratica inglese Ottoline Morrell: «Mi resi realmente conto di quanto fosse orribile lo spirito di violenza […]. La folla presenta un carattere terribile quando desidera lo spargimento di sangue».
La coscrizione obbligatoria costituì uno dei temi più dibattuti da Russell nel 1917: nel suo primo discorso alla Camera dei Comuni, come Primo Ministro, David Lloyd George auspicò la coscrizione in ambito industriale per mobilitare l’intera forza lavoro del Regno Unito. Una simile prospettiva legislativa confermava le convinzioni degli “assolutisti” secondo i quali qualsiasi consenso da parte degli obiettori di coscienza a prestare servizio alternativo, avrebbe rappresentato di fatto una forma di connivenza nello sforzo bellico; i quaccheri furono tra i più convinti sostenitori delle tesi assolutiste attraverso l’“American Friends Service Committee”. Russell rivendicò un ruolo politico più visibile per il “No-Conscription Fellowship” e ciò lo indusse ad animare un vivace dibattito all’interno di «The Tribunal»; egli analizzò le prospettive dell’NCF sostenendo la decisione degli “assolutisti” di non espletare un servizio alternativo nell’ambito dell’Home Office Scheme. Da un lato, Russell era consapevole che la loro posizione presentava fondamentalmente un punto debole: la pretesa degli “assolutisti” di non ottemperare ad alcuna forma di servizio obbligatorio, non era suscettibile di prova oggettiva, e quindi poteva costituire un pretesto per non assolvere un obbligo. Dall’altro lato, egli riteneva che l’autorità governativa doveva oramai rendersi conto che la richiesta di esonero assoluto dal servizio militare costituiva «un’autentica rivendicazione di coscienza»; pertanto, non si doveva punire gli obiettori per «una convinzione percepita nella loro coscienza».
Alla fine del 1917 Russell criticò nuovamente il servizio militare obbligatorio attraverso Will Conscription Continue After the War?; tale articolo fu ispirato dalla “Nota di pace” scritta da Papa Benedetto XV e indirizzata alle Potenze belligeranti, che suggeriva l’abolizione universale della coscrizione obbligatoria.
Nel gennaio del 1917 Russell subentrò a Clifford Allen come presidente dell’NCF, mentre Catherine Marshall sostituì Fenner Brockway in veste di segretario; nuove sezioni furono istituite in tutto il Paese. A partire da marzo del 1916 l’NCF aveva iniziato a pubblicare «The Tribunal». L’Home Office Scheme prevedeva campi di lavoro, istituiti dal governo nel 1916, dopo che il Tribunale centrale considerò i prigionieri veri e propri obiettori; alcuni di essi credettero che ciò fosse un atto di sostegno indiretto alla guerra e, quindi, decisero di rimanere in prigione. zione mediante un accordo internazionale, nonché dal discorso del 2 ottobre 1917 del ministro degli Esteri dell’Impero austro-ungarico Ottokar Czernin il quale, condividendo le linee della “formula di Pietrogrado”, sembrava pronto a svincolarsi dalla politica del Secondo Reich. Finché la coscrizione sarebbe rimasta obbligatoria – scrisse Russell – difficilmente «le nazioni confinanti […] avrebbero mantenuto relazioni vicendevolmente amichevoli», poiché ciascuna di esse sarebbe rimasta «continuamente ossessionata dall’esercito del Paese limitrofo». Nel gennaio 1918 Russell divenne vicepresidente della “National Council of Civil Liberties” (NCCL) e il conferimento di tale incarico coincise con il suo crescente impegno nell’UDC, specialmente con il suo comitato esecutivo; collaborando con entrambe le organizzazioni, egli avrebbe potuto raggiungere un pubblico più ampio. La nuova legge sul servizio militare del marzo 1918 innalzò il limite di età a cinquantuno anni, coinvolgendo direttamente lo stesso Russell. Gli eventi che condussero alla sua detenzione sono riscontrabili in un editoriale apparso su «The Tribunal» e intitolato The German Peace Offer; in questa occasione, affermò che qualunque ragione per legittimare la guerra era ormai irrilevante, poiché il Secondo Reich era pronto a negoziare con i bolscevichi sulla base di una pace «senza annessione, né indennità». Se, da un lato, egli esortò i laburisti a utilizzare la loro influenza per convincere il governo britannico ad accettare l’offerta di pace da parte della Germania, sulla base delle linee guida dei russi, dall’altro lato temeva che i governi occidentali si sarebbero mostrati riluttanti ad accettare la proposta tedesca per evitare un trionfo degli «odiati bolscevichi» e una lezione morale sul «modo di trattare con capitalisti, imperialisti e guerrafondai». Questo numero di «The Tribunal» non passò inosservato all’Home Office; le autorità governative biasimarono le riflessioni di Russell, in particolar modo le sue osservazioni critiche sul fatto che la guarnigione americana fosse utilizzata per intimidire gli scioperanti contro la guerra. Egli fu condannato a sei mesi di reclusione nella prigione di Brixton; inoltre, la sua speranza che la Germania concludesse un equo trattato di pace con la Russia crollò rapidamente; Lenin e Trotsky cedettero alle richieste tedesche riguardanti l’annessione di vaste porzioni del vecchio impero zarista e le indennità; ciò venne formalizzato attraverso il trattato punitivo di Brest Litovsk del 3 marzo 1918. Fino alla fine del Primo conflitto mondiale, Russell considerò la Rivoluzione di marzo la più grande opportunità persa durante la guerra, poiché l’Europa era stata sul punto di realizzare l’ideale della fratellanza tra gli uomini. Se alla rivoluzione russa fosse simultaneamente seguita in Germania una simile iniziativa – egli puntualizzò in Roads to Freedom (1918) – «la drammatica repentinità del cambiamento avrebbe potuto scuotere l’Europa» e «l’idea di fratellanza sarebbe stata accettata, in un batter d’occhio, nel mondo della politica concreta»; mentre coloro avevano rifiutato « […] la rivoluzione come metodo, lodandone […] il graduale sviluppo frammentario», come era accaduto nel mondo anglofono, avevano sottovalutato il potenziale «effetto degli eventi drammatici nel cambiare l’umore e le credenze di intere popolazioni». In sintesi, con riferimento alle riflessioni elaborate da prestigiosi intellettuali contemporanei, evidenziate all’inizio di questo saggio, Russell sostenne diverse forme di pacifismo durante la Grande Guerra. Se prendiamo in considerazione il pensiero di Bobbio, il filosofo gallese fu interprete di un «pacifismo strumentale» la cui azione era volta a sostituire i mezzi violenti con quelli non violenti (si pensi alla sua strenua battaglia contro la coscrizione obbligatoria, riconducibile alla teoria gandhiana del Satyagraha) e di un «pacifismo scientifico», secondo il quale la vera ragione della guerra era da ricercare negli impulsi primitivi della natura umana, soprattutto – per dirla con lo stesso Russell – in quelli «possessivi» o «creativi» (a tale riguardo, egli sembrò preconizzare la teoria di Freud sulle pulsioni umane). Basandoci invece sulle considerazioni di Mühlmann, possiamo affermare che Russell condivise un «semi-pacifismo» che giustificava le guerre in determinate condizioni (basti rammentare l’articolo The Ethics of War in cui egli considerò ammissibili le guerre di «colonizzazione», «principio» e «autodifesa»). Se consideriamo le osservazioni di Sibley, Russell condivise un «pacifismo politico» tendente a evidenziare le potenzialità dell’attività parlamentare. Infine, se si analizzano le opinioni formulate da Galtung e Boersema, possiamo affermare che l’intellettuale gallese sostenne senza mezzi termini un «pacifismo positivo», cioè riconducibile non alla mera assenza di violenza o guerra, ma alla creazione e al consolidamento di relazioni pacifiche tra Stati. La differenza tra «pacifismo negativo» e «positivo» fu sottolineata da Baruch Spinoza (1632-1677) che identificò la pace attraverso la presenza di giustizia, legge e ordine: «La pace non è assenza di guerra: è una virtù, uno stato d’animo, una disposizione alla benevolenza, alla fiducia, alla giustizia». In realtà, il pacifismo di Russell risaliva al 1901 (all’epoca egli aveva ventotto anni), apparendo come il frutto di una conversione spirituale: «Sin dal mio matrimonio […] avevo sottovalutato tutte le questioni più profonde»; ma all’improvviso «il terreno sembrò cedere sotto i miei piedi» tanto che «ero diventato una persona profondamente diversa»: una sorta di «illuminazione mistica iniziò a pervadermi» e pur essendo «imperialista divenni […] filo-boero e pacifista».
1 Cfr. N. Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, Bologna, il Mulino, 1984, pp. 75 sgg.