Nel paese arcobaleno la violenza sulle donne è tra le più alte al mondo: ogni tre ore ne viene assassinata una e l’omicida, nella maggior parte dei casi, è un marito, un fidanzato o conoscente. È partita la campagna #AmlNext anche per cambiare l’attuale legge che «assomiglia molto a un cane sdentato».
AmlNext, Sono io la prossima? Se lo chiedono le donne sudafricane che con questo hashtag e la campagna in corso sui social, dall’agosto dello scorso anno, hanno lanciato il loro grido di protesta (e richiesta di aiuto) contro l’incremento di femminicidi nel loro paese. Un termine usato non solo dalle organizzazioni decise a fermare questa violenza, ma dai giornalisti e dai politici locali. Una campagna cominciata dopo l’ennesimo caso, quello di Mrwetyana, studentessa diciannovenne brutalmente violentata e poi uccisa da un dipendente di un ufficio postale di Città del Capo. L’uomo l’aveva chiamata per ritirare un pacco intestato a suo nome. Da quell’ufficio Uyinene è uscita con la testa fracassata.
In Sudafrica ogni tre ore una donna viene assassinata e l’omicida, nella maggior parte dei casi, è un marito, fidanzato, conoscente. Secondo un rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità, il Sudafrica è il quarto paese (su 183) con la più alta percentuale di decessi di donne dovuti a cause legate alla violenza. Prima ci sono l’Honduras, la Giamaica e il Lesotho, enclave del Sudafrica. Ma sono dati riferiti al 2016. Oggi la situazione è peggiorata. Ad affermarlo sono le cifre ufficiali. Omicidi legati al genere, per ammissione dello stesso governo sudafricano. È stato proprio il presidente Cyril Ramaphosa ad ammettere: «È in corso una guerra violenta e brutale contro le donne sudafricane».
Le ultime relazioni fornite dalla polizia sono allarmanti: tra il 2018 e il 2019 sono state uccise circa 3mila donne. A questi omicidi vanno aggiunti altri crimini nei confronti del genere femminile: i reati sessuali, aumentati del 9,6% e gli stupri in aumento del 3,9%. Ce ne sono stati 41.583 in un anno, in aumento rispetto all’anno precedente. Significa che ogni giorno 114 donne vengono violentate. E, naturalmente, si parla solo dei casi denunciati. Le ricerche statistiche affermano che una donna sudafricana su 5, al di sopra dei 18 anni, ha subìto violenze fisiche da parte del partner.
A ciò si somma un altro fenomeno inquietante: quello delle sparizioni. Il ministro della polizia, Bheki Cele, ha rivelato che dal 2016 al 2019 sono “sparite” 4. 512 donne. Per l’80% si tratta di sudafricane nere (3.598), le sudafricane bianche sono 258, le coloured 595, 63 le indiane. Ma se Ramaphosa ha promesso una serie di emendamenti alle leggi esistenti per fronteggiare la gravità dei crimini di genere, c’è chi – come l’lnstitute for Security Studies (Iss) – afferma che «affrontare il problema con arresti, prigione e il tentativo di far rispettare la legge non è sufficiente a fermare tali crimini». Agire all’interno della società civile, vuol dire interessare le scuole, i servizi sociali, le strutture sanitarie, ma anche ripensare all’economia del paese.
In realtà si sa poco dell’implementazione dell’Emergency action plan, il piano nazionale d’emergenza che avrebbe dovuto essere attivato in sei mesi, a partire da quell’accorato discorso alla nazione pronunciato nel settembre 2019 dal capo di stato. Né della Commissione ad interim impegnata a studiare e arginare il fenomeno. E nemmeno di come si stiano impegnando i 60 milioni di euro che il presidente ha promesso per misure riguardanti l’educazione pubblica, per rafforzare il sistema della giustizia e per garantire assistenza alle vittime. Una cosa invece è certa: dall’inizio del 2020 è ripartita la conta delle vittime; tra queste una giovane dottoressa venticinquenne, Shongile Nkwhashu, uccisa dal fidanzato. “Nel mio paese è più facile essere stuprata che ottenere un lavoro”, è uno dei tanti cartelli issati durante le proteste che periodicamente si accendono nelle principali città sudafricane. Proteste che vedono coinvolti anche i sobborghi, dove le azioni criminali si legano alle condizioni socio-economiche dei suoi abitanti. Se infatti il fenomeno della violenza fisica (non solo sessuale) è diffuso in ogni ambito sociale, è nelle periferie, negli slum, che diventa animalesco scarico di tensioni e frustrazioni. Situazioni mostrate al mondo intero da un giornalista locale, Golden Mtika, che in un reportage per la Bbc ha testimoniato la realtà di Dieplsoot, uno dei luoghi più pericolosi di Johannesburg. Specialmente se sei una donna. Un documentario crudo, sconcertante, che trasmette immagini durissime di donne abusate e uccise; della comunità che si fa giustizia da sola dando fuoco agli stupratori, anche solo sospettati di aver commesso il crimine; di ragazzi che ammettono davanti alle telecamere le loro azioni senza un briciolo di rimorso. L’ultima relazione Poverty Trends in South Africa risale agli anni 2014-2015 e sottolinea l’incremento dei livelli di povertà nel paese. Nel 2015 era considerata povera più della metà della popolazione, 30,4 milioni di persone. Il governo ha in programma un nuovo rapporto, ma ha anche fatto sapere di non avere soldi a sufficienza per appaltarlo. Nel frattempo ha aggiornato il parametro per valutare lo stato di povertà estrema, che dal luglio 2019 nel paese corrisponde a 1,20 dollari al giorno. E il 2020 è cominciato davvero male, mettendo a repentaglio quella crescita auspicata e tremendamente indispensabile. Molte compagnie che operano nella nazione arcobaleno hanno annunciato, infatti, il taglio di migliaia di posti di lavoro, almeno 8mila. In un paese dove un terzo della forza lavoro è inattiva, questi annunci hanno il suono di campane funebri. Il tasso di disoccupazione nel 2019 era già salito a oltre il 29%. Il livello peggiore tra le maggiori economie mondiali in cui il Sudafrica, componente del Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) rientra. Gran parte di questi disoccupati vive di espedienti e criminalità nelle baraccopoli.
Giovani e giovanissimi intrappolati nel ciclo della povertà e d i bisogni negati. È in questi contesti che la violenza prolifera. Manca la certezza della pena.
Ma se il degrado può essere elemento di esasperazione della violenza, il femminicidio si manifesta anche nella media e alta borghesia. Come dimostrano alcuni dei casi citati. Il problema è che spesso, qualunque sia la vittima, manca la certezza della pena. La legislazione sudafricana dal 1998 riconosce, per fermarci ai crimini che si compiono in famiglia, il reato di violenza domestica, e include lo stalking. Ma è proprio il ministro della giustizia, Ronald Lamola, ad affermare: «La nostra legge sulla violenza domestica è come un cane sdentato, così come gli altri apparati legislativi. Bisogna cambiare le normative ». Nel caso della giovane Uyinene Mrwetyana l’assassino, reo confesso, è stato condannato al carcere a vita. Il clamore della vicenda fu enorme e il World Economie Forum che si stava svolgendo a Città del Capo fu l’obiettivo delle proteste, che sollecitavano Ramaphosa a occuparsi una volta per tutte della violenza di genere. Sarebbe stato impossibile, con un’opinione pubblica così arrabbiata, non dare una risposta esemplare. Ma sono molti i casi che si concludono con un’archiviazione: colpevole non trovato. È in questo clima che sta crescendo il favore popolare verso la reintroduzione della pena capitale, abolita nel paese nel 1995. Oltre 600mila persone hanno firmato una petizione (ancora aperta) per ristabilire la pena di morte per i crimini contro donne e bambini. «La pena di morte è sintomo di una cultura di violenza, non la soluzione ad essa», dice però Shenilla Mohamed, di Amnesty International Sudafrica. «E non c’è alcuna prova che possa essere un deterrente per questi crimini più della prigione. Piuttosto, il governo dovrebbe incanalare le risorse per assicurare un’effettiva amministrazione della giustizia e fare in modo che la polizia sia preparata e sensibilizzata a investigare sui casi di violenza di genere, compresa la violenza domestica. Occorre che questa violenza sia presa sul serio a tutti i livelli del sistema giudiziario, anche sfidando stereotipi discriminatori sulle vittime e sulle sopravvissute».
Sono state 108 le vittime nel 2019. E dal 1° gennaio 2020 si è ricominciato. Siamo in Kenya e la certezza dei numeri è dovuta all’iniziativa di Kathomi Gatwiri, docente di Scienze sociali all’Università del Queensland e di Audrey Mugeni, un master in Arte di genere, entrambe kenyane. County 11g dead women tiene il lugubre conteggio delle donne assassinate.
Sulle pagine di Facebook e Twitter raccontano, giorno per giorno, la violenza di genere. « I numeri sono importanti -affermano – e non mentono». le fonti sono soprattutto articoli di giornale e notiziari. «la speranza è cominciare presto a mettere insieme anche le notizie sull’arresto, il processo, la condanna di chi compie questi crimini».
Molte violenze sono nascoste dentro le mura di casa
Affidarsi ai rapporti sulla questione femminicidio nell’Africa subsahariana vuol dire tenere nota solo della punta dell’iceberg. Un recente studio pubblicato sul Journal of lnterpersonal Violence afferma che su oltre 37mila donne tra i 25 e i 49 anni intervistate in 8 paesi dell’Africa subsahariana, il 45,60% ha avuto esperienza di violenza sessuale, fisica, psicologica . Ma la maggior parte delle violenze rimane nascosta tra le mura domestiche. Nessuna lamentela, nessuna denuncia, nessuna richiesta di aiuto a organizzazioni o servizi sociali di cui, anzi, spesso non si conosce neppure l’esistenza. E che, se si vive in zone rurali, sono praticamente irraggiungibili. Lo stesso avviene per lo stupro, che molte volte culmina con la violenza estrema, l’omicidio.
Ecco perché ha suscitato tanto clamore il caso della fotografa nigeriana Busola Dakolo, che voleva portare in giudizio, per la violenza subita, Biodun Fatoyinbo, leader di una Chiesa evangelica.
Non ce l’ha fatta Busola: il suo coraggio si è scontrato con i pregiudizi e la forza (anche economica) di un uomo con migliaia di seguaci pronti a prenderne le difese. Così come sarà difficile che ci riescano le 3 donne che accusano di stupro l’ex presidente del Gambia, Yahya Jammeh. Oppure che si faccia giustizia delle decine di donne rapite e poi trovate morte (o mai ritrovate) in Uganda. Eppure mai come oggi sta emergendo la consapevolezza che è necessario esporsi e superare la vergogna, il giudizio, l’accusa di essere colpevoli e non vittime. Il movimento #MeToo – diffuso in molte città africane – ha bisogno però del supporto delle istituzioni, compresa la stampa. Un’indagine di Bio Med Central condotta sui media ghaneani, ha messo in risalto quanto gli atti di violenza perpetrati contro donne e ragazze siano presentati come casi individuali, senza riferimento ai contesti sociali in cui si sono verificati, e quanto sia diffuso tra 1 giornalisti un linguaggio di colpevolìzzaz1one delle vittime. I media, dunque, non solo non riescono a favorire la percezione delle violenze sulle donne come un problema sociale, ma danneggiano, a loro volta, l’immagine di chi queste violenze le ha subite.
Ma ci sono anche esempi di giornalisti che stanno contribuendo a portare a galla la dimensione del fenomeno. Come la giornalista della Bbc di origine nigeriana, Kiki Mordi. Spacciandosi per una studentessa, e con una telecamera nascosta, ha cominciato a frequentare due importanti università di Lagos e Accra. Ha così documentato le molestie sessuali di alcuni docenti, che promettevano buoni voti in cambio di sesso. Professori – allontanati poi grazie al reportage dal titolo Sex for grade – noti a molte studentesse che avevano subìto lo stesso trattamento. Quello che occorreva erano le prove. Mordi, quelle prove le ha fornite.
Di Antonella Sinopoli
NIGRIZIA NUMERO 3, MARZO 2020