Le marce sono sempre state, nel corso della storia, uno tra gli elementi più potenti di cambiamento sociale dal basso: la marcia su Washington per il lavoro e la libertà del 1963, che si concluse con il celebre discorso di Martin Luter King “I have a dream”; la nostra stessa marcia Perugia-Assisi per la pace e la fratellanza tra i popoli. Le marce sono tuttora un potente strumento politico di cambiamento, grazie alla loro capacità di portare alla ribalta temi ignorati dalla politica ufficiale, da opinioni pubbliche oramai assuefatte all’agenda imposta dal sistema economico-finanziario che domina il mondo.
Il 12 ottobre 2018 una carovana di 160 migranti ha iniziato la sua marcia dall’Honduras. Destinazione: Stati Uniti. Per raggiungere la frontiera statunitense il gruppo, le cui fila si sono ingrossate giorno dopo giorno fino ad arrivare alle 7mila persone, ha attraversato il Guatemala e dopo più di 2 settimane è arrivato in territorio messicano, nonostante le minacce del presidente Trump.
“Siamo pronti ad andare negli Stati Uniti per vivere il sogno americano”, ha detto alla BBc Mauricio Mancilla, che ha viaggiato con suo figlio di 6 anni.
Marciano intere famiglie, cercano lavoro e l’occasione di condurre vite normali, come quelle dei cittadini statunitensi. Il presidente Trump ha già messo in campo una risposta delle sue, schierando 5.000 marines e descrivendo il popolo in cammino come un’accozzaglia di indesiderabili che mette a rischio la sicurezza del paese. Da questo punto di vista la marcia è un toccasana propagandistico: permette al presidente di agitare lo spauracchio dell’invasione e proporsi come comandante in capo pronto a “difendere”, costi quel che costi, il popolo statunitense.
Ma la maggior parte delle persone vengono dall’Honduras, uno dei paesi più poveri del Centro America, noto per la violenza di bande criminali e sconvolto dalla guerra alla droga e dalla corruzione dilagante. La prospettiva di una vita migliore è ciò che ha spinto migliaia di persone ad abbandonare il proprio paese, nonostante gli sforzi fatti tanto da Trump quanto dal presidente del Messico per rendere più difficile il viaggio verso gli Usa.
Non si sa cosa accadrà ad ognuno di loro, parte del gruppo rimarrà in Messico e alcuni rischiano di essere rispediti in Honduras. Intanto, a partire dal 22 ottobre, le autorità messicane hanno ricevuto circa mille richieste di asilo.
La marcia in Centro America ricorda al mondo che il diritto di emigrare è uno dei diritti fondamentali del nostro tempo, in un mondo caratterizzato da diseguaglianze mai viste prima, da una oramai sempre maggiore facilità di spostamento e da minacce incombenti di natura politica, sociale, ambientale.
Non basteranno i militari schierati dal presidente americano per fermare il movimento di liberazione incarnato oggi dagli honduregni, salvadoregni, guatemaltechi in cammino: queste persone sono testimoni e protagoniste di un processo di trasformazione che va oltre la lotta del momento.
È una lotta che ci riguarda, perché il diritto di emigrare è il traguardo che dovrebbe oggi ispirare chi si batte in difesa della democrazia e del principio di giustizia sociale.
Asia Benenati