«Abbiamo avuto un po’ di libertà dalla sicurezza sociale» dice il leader dei Clash Joe Strummer in una intervista rilasciata a una rivista musicale nel 1976 (e riportata da Giuseppe Allegri nel suo ultimo libro Il reddito di base nell’era del digitale). Il cantante racconta di aver conosciuto gli altri componenti della band mentre era in fila per ritirare il sussidio di disoccupazione. Essere “on the dole” (essere, cioè, a carico della sicurezza sociale), senza “contropartite”, continua Joe Strummer nella sua intervista, ha permesso loro di dedicarsi pienamente all’inclinazione artistica che li accomunava, senza essere costretti ad accettare lavori di qualsiasi tipo per sopravvivere.
Daniel Blake è il personaggio del film omonimo di Ken Loach (del 2016), un falegname alle soglie dei 60 anni che, dopo una grave crisi cardiaca, impossibilitato a lavorare, è costretto a chiedere un sussidio di disoccupazione. Ma per ottenerlo deve ottemperare a richieste (impegni nella ricerca del lavoro), che non può soddisfare a causa proprio della sua malattia, rimanendo impigliato nelle maglie di una burocrazia incapace di venire incontro alla sua reale e disperata situazione.
Daniel Blake è oggi considerato il simbolo di chi, impossibilitato a provvedere a se stesso, si rivolge alla sicurezza sociale senza ricevere adeguate risposte. Esponente di una platea che si sta ampliando sempre più.
Quarant’anni sono passati tra il momento in cui il leader dei Clash conosce gli altri membri della band mentre è in fila per ritirare il sussidio e il momento in cui Daniel Blake, nel film, viene presentato anch’egli “in fila per il sussidio”.
In questi quarant’anni si svolge la parabola discendente del Welfare State britannico, ma possiamo dire europeo.
Negli anni ‘70 nel Regno Unito era ancora in vigore quel Welfare che è stato un esempio cui si sono ispirati, seppure in modi e con risultati diversi, molti paesi dell’Europa occidentale.
Esso prendeva il via dal Rapporto Beveridge, presentato nel 1942 in piena seconda guerra mondiale, a conclusione di una commissione d’inchiesta, per disegnare la società post-bellica. Per Lord Beveridge la libertà individuale era un valore imprescindibile, ma per rendere le persone libere bisognava creare concretamente le condizioni di tale libertà. Bisognava, cioè, che la società non fosse più oppressa dai “grandi mali” che affliggevano molta parte della popolazione: la malattia, l’ignoranza, la povertà, la disoccupazione, il bisogno.
Era compito dello Stato promuovere servizi universalistici, cioè rivolti a tutti i cittadini per il loro benessere, attraverso la fiscalità generale; in questo modo avveniva una sorta di redistribuzione di “quote della ricchezza sociale prodotta”, al fine di attenuare le disuguaglianze e di creare opportunità di mobilità sociale in senso ascensionale.
Anche in virtù di questa politica è stato possibile il dispiegarsi di quel “trentennio d’oro” che dal dopoguerra è arrivato a fine anni ’70.
Ma dalla fine degli anni ’70 in poi gli scenari sono cambiati completamente.
Il modello produttivo fordista ha lasciato il posto al modello post-industriale e alla globalizzazione, che hanno portato con sé profondi cambiamenti, ovvero il declino di alcuni importanti settori della produzione e lo sviluppo di altri e una forte competitività fra i mercati del lavoro.
«La distinzione pertinente […] non è tra economia industriale e post-industriale, tra fordismo e post-fordismo», ci dice il sociologo tedesco Ulrich Beck nel suo libro Europa Felix (pubblicato nel 1986), «bensì tra le sicurezze e le certezze e i chiari confini settoriali e nazionali della prima modernità e le insicurezze ed incertezze e assenze di confini della seconda modernità».
L’Europa Felix di cui ci parla Ulrich Beck è tramontata con «la liquefazione di tutti quei corpi solidi» (organizzazioni e istituzioni sociali, economiche, politiche) che nella loro dialettica avevano creato una tensione verso una società più equa. Come ci ricorda Bauman.
Mentre nuovi modelli di produzione (just in time, a domanda…) hanno permesso di «[…] regolare il flusso della forza lavoro in modo che le sue prestazioni vengano erogate, e dunque retribuite, solo quando siano effettivamente utilizzabili -ossia valorizzabili- in un dato tempo e luogo […]». (Luciano Gallino, Il lavoro non è una merce, 2007)
Il lavoro flessibile, senza garanzie o con tutele e diritti decrescenti, è dilagato portando con sé condizioni di vita precarie. E proprio dentro i confini dei paesi europei tornavano ad approfondirsi le disuguaglianze e ad aumentare la disoccupazione.
Ma a un aumento di queste condizioni di lavoro e di vita hanno corrisposto politiche di austerità e tagli al welfare, soprattutto a partire dagli anni novanta. E un cambio di paradigma, con la subordinazione dell’elargizione di un sussidio di disoccupazione, all’attivazione del beneficiario a ricercare un lavoro proprio nel momento di minori prospettive lavorative.
Il welfare si è trasformato in welfare to work ovvero in workfare.
Molti paesi europei hanno introdotto da tempo il Reddito Minimo Garantito (RMG), una misura di contrasto alla povertà, una erogazione in denaro pagata dalla fiscalità generale, su base individuale, destinata a tutti coloro che, vivendo al di sotto di una soglia di povertà, versano in uno stato di bisogno e/o sono a rischio di esclusione sociale. I destinatari del RMG devono dare prova della loro situazione di bisogno (means test), punto di partenza per un’azione volta al suo superamento. E proprio perché il RMG deve accompagnare l’individuo verso l’autonomia, non ha una durata precostituita, ma viene erogato fino al superamento dello stato di bisogno.
I beneficiari devono rendersi disponibili al lavoro, alla frequenza di corsi di formazione o aggiornamento professionale.
Ovviamente non esiste un solo modello di RMG, nonostante la Commissione europea cerchi di promuovere, da più di un decennio, una omogeneità fra i paesi che ne sono provvisti, oltre che la sua attuazione in quelli che ne sono sprovvisti.
In Italia il 28 gennaio 2019 è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il Decreto Legge che istituisce il Reddito di Cittadinanza, così chiamato impropriamente (in realtà andrebbe chiamato RMG perché di esso ha le caratteristiche). Esso sostituisce il precedente Reddito di Inclusione, che era in vigore da neppure un anno.
Si tratta di un sostegno, reddito o integrazione al reddito, alle famiglie che si trovano sotto la soglia di povertà, effettuato attraverso il pagamento su carta elettronica, a carico della fiscalità generale, di un importo base di 780 euro. L’importo erogato cambia secondo il numero e la composizione familiare, la proprietà dell’abitazione, il pagamento di un mutuo. Viene corrisposto alle famiglie italiane, dell’Unione Europea, ed extra comunità europea con permesso di soggiorno permanente. Tutti devono essere residenti in Italia da dieci anni di cui due continuativamente.
La normativa prevede, inoltre, a quali scopi può/deve essere spesa la cifra versata e che «il beneficio deve essere fruito entro il mese successivo a quello dell’erogazione. L’importo non speso o non prelevato viene sottratto nella mensilità successiva». Soprattutto esso è strettamente legato alla disponibilità al lavoro e/o alla partecipazione a corsi di formazione o di aggiornamento. Otto ore, o sedici (in via di definizione), di lavoro settimanale, gratuito e obbligatorio, devono inoltre essere prestate presso il comune di residenza.
Ha una durata di 18 mesi, rinnovabile per altri 18 dopo lo stop di un mese, se le condizioni di necessità persistono.
Contestualmente il decreto prevede il potenziamento dei Centri per l’impiego e la nascita di una nuova figura, il navigator, che ha il compito di accompagnare alla ricerca e all’inserimento al lavoro.
Sono previsti incentivi alle imprese che assumono coloro che beneficiano del RdC, e forti penalità per dichiarazioni mendaci riguardo al proprio status.
Le critiche rivolte al provvedimento sono state molte. Fra queste la più frequente nel corso del dibattito che ha preceduto la definizione della misura di contrasto all’esclusione sociale, è stata “si danno soldi a chi sta sul divano”. Oltre ad essere una frase che evidenzia la scarsa considerazione nei confronti di chi si trova in condizioni di indigenza, stigmatizza il povero/disoccupato come persona passiva, non in grado di badare a se stessa e responsabile della sua situazione. Non, invece, come il risultato dei modelli e dei modi di produzione attuali, che hanno creato la figura del lavoratore povero, impiegato spesso nella cosiddetta “gig economy” o “on-demand economy”. Questo mantra ha probabilmente influenzato la stesura della normativa, se vengono chieste da otto a sedici ore di lavoro gratuito settimanale come contropartita minima. Come dire che si deve dare qualcosa e subito, in cambio dell’aiuto ricevuto. E sono previste sanzioni molto severe per ogni mancanza del beneficiario, fino a sei anni di reclusione per dichiarazioni non veritiere sul patrimonio.
Il provvedimento, comunque, si colloca nel panorama del welfare italiano come una novità per ampiezza della platea di cui si fa carico e per la cifra erogata. Con luci e ombre.
Ha attenzione verso chi vuole avviare attività autonome, con l’erogazione dell’intero importo delle rate del reddito; e a chi si occupa di attività di cura (figli sotto i 3 anni, familiari disabili) che non viene sottoposto ad alcun obbligo di impiego.
Sottolinea che le offerte di lavoro debbono rispettare dei «criteri di congruità» e tenere conto delle competenze e delle attitudini dei singoli beneficiari. Ma anche l’obbligo di accettare offerte di lavoro entro i 100 km dal domicilio e poi anche a 250 km dopo sei mesi, ovunque dopo un anno.
Ma ancora una volta il welfare italiano ha come obiettivo la famiglia e non il singolo, per cui il comportamento e il destino di ogni componente ricade su tutti gli altri.
In più esclude molte famiglie di recente immigrazione, dove più profonda si annida la povertà.
Il provvedimento, inoltre, tende ad ampliare in modo ipertrofico la burocrazia, che si occupa a vari livelli dell’attuazione del provvedimento e con l’istituzione dei navigator, figure non stabilizzate, farà lievitare il numero dei lavoratori precari.
Va detto poi, che l’incentivo alle imprese non ha sempre dato in passato buoni risultati in provvedimenti volti all’inserimento lavorativo che già lo avevano previsto.
Chi studia da anni questi interventi non può fare a meno di paventare ciò che in altri paesi di più lunga esperienza (es. Gran Bretagna, Germania) è accaduto: una sorta di “governance” della povertà, con scarse prospettive di uscita dal bisogno da parte dei beneficiari, costretti a lavori spesso saltuari e mal pagati. Quasi un “esercito industriale di riserva” della post-modernità che preme su altri occupati. Su salari e diritti.
Mentre rimane non affrontato il problema reale più grande: la progressiva diminuzione del lavoro. In particolare l’automazione e la digitalizzazione che avanzano nel mondo del lavoro e nelle nostre vite, erodono ed eroderanno sempre più i posti di lavoro.
È volgendo lo sguardo a questa realtà che molti sociologi – e ricordiamo anche Bauman in chiusura del suo ultimo libro – parlano della necessità di un Reddito di Cittadinanza nel vero senso del termine.
Ma quella del “vero” Reddito di Cittadinanza è una storia che racconteremo un’altra volta.
Roberta Merighi – Bologna