Addio per sempre alle armi: gli scienziati sanno come si fa

Il fisico italiano, tra i più noti al mondo, sostiene che non è un’utopia immaginare una società senza armamenti e che la collaborazione umana è più forte della violenza. Per questo ha lanciato un appello con 50 studiosi

Carlo Rovelli, 66 anni tra qualche giorno, ha un curriculum che esaurirebbe l’intero articolo. Ha insegnato a Roma, a Pittsburgh (Usa) e in Canada. È uno dei fisici più noti al mondo, ha fondato il Quantum Gravity Group e oggi si occupa principalmente della teoria della gravità quantistica a loop. Tre anni fa è stato inserito nella lista dei cento migliori pensatori del pianeta dalla rivista Foreign Policy. Rovelli può essere considerato un intellettuale a tutto tondo, visti anche i suoi studi e scritti di storia, di filosofia e sul pensiero scientifico. Il suo best seller “Sette brevi lezioni di fisica” (Adelphi, 2014) ha avvicinato migliaia di lettori comuni ai segreti più estremi della scienza. La sua fama si lega anche all’antico impegno civile per la pace e la distensione globale. Pochi sanno che nel 1983, dopo che gli fu respinta la domanda di obiezione di coscienza, rifiutò di presentarsi alla visita di leva e fu arrestato per qualche giorno.

Lo scorso dicembre, quando il tema della guerra non aveva ancora la drammatica attualità di oggi, ha raccolto la firma di 50 premi Nobel (prevalentemente scienziati) intorno all’appello a tutti i governi del mondo perché riducessero le spese militari del due per cento ogni anno, intitolato “Una semplice concreta proposta per l’umanità: un discorso fondato sulle ragioni scientifiche ed economiche, prima che morali, del disarmo”.

Professore, lei è un fisico teorico, parla e dimostra con la facilità del grande scienziato fenomeni inspiegabili come il tempo che scorre in modo diverso a seconda dello spazio. È quindi a suo agio con ciò che è apparentemente inspiegabile e inconcepibile. Partiamo da qui: è possibile secondo lei parlare di disarmo totale?

«Ci si può arrivare in modo graduale e potrebbe essere un obiettivo realistico. Se pensiamo all’Italia, vediamo che ogni città ha mura erette per difendersi da una città vicina pronta a invadere e muovere guerra. Questo fenomeno, fino a secoli fa diffusissimo, si è completamente esaurito e ora Verona e Padova, tanto per fare un esempio della mia terra di origine, non si guardano più in cagnesco, così come Francia e Germania e altri vicini, nemici acerrimi una volta, hanno gradualmente imparato a convivere senza eserciti schierati. È un lento processo di apprendimento ma è necessario avere come obiettivo la grande idea del filosofo Immanuel Kant: il mondo imparerà su grande scala. Al momento può sembrare utopico. Ma se pensiamo il processo a lunghissimo termine ed entriamo nello spirito di collaborazione globale, non vedo perché non possiamo immaginare una cosa del genere. Forse non sarà un disarmo totale, magari ci saranno piccole forze di polizia che gestiranno piccoli eventi. È un sogno? Sì, ma ha alla base una concezione fortemente razionale».

In effetti sappiamo che qualcosa di simile è accaduto con il trattato Intermediate-Range Nuclear Forces tra Usa e Urss, siglato nel 1987 da Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov. Il suo concetto, quindi, è puntare sulla collaborazione piuttosto che sul confronto?

«Esattamente. Detto così può sembrare semplicistico, ma c’è qualcosa di profondo in questo ragionamento. Tutto ciò di cui possiamo godere oggi è frutto di collaborazione tra uomini e tra popoli diversi. Non è che tradiamo i valori dell’occidente se riconosciamo ideologie o approcci diversi. Noi, al contrario, tradiremmo illuminismo, cristianesimo e valori europei se non accettassimo che possiamo essere diversi. L’esasperazione del confronto porta sempre a polarizzazioni. Leggevo proprio qualche giorno fa sul New York Times che il sostegno dei russi a Vladimir Putin prima della guerra si aggirava attorno al 60 per cento mentre adesso è salito all’85 per cento».

Frutto di una propaganda fuori controllo?

«Le perplessità di una parte della popolazione sul senso di fare una guerra sono diminuite. Le tv russe parlano di quanto è aggressivo l’Occidente, di quanto sia pericoloso per la popolazione e stia crescendo un fortissimo senso di gruppo “contro”. Questa polarizzazione avviene anche da noi, ovviamente rafforzata dagli orrori reali compiuti dai russi. Insistere su questo è molto dannoso. Io credo che bisogna ripartire dall’idea che anche la politica internazionale debba essere di collaborazione e non di contrapposizione, che dobbiamo uscire dal loop “Oh mio Dio qualcuno può diventare più forte di me, allora devo rafforzarmi, aumentare le spese militari e ritornare a una posizione di forza”. Invece di soffiare sulla retorica “gli altri sono i cattivi, noi i buoni”, parliamoci anziché armarci».

Quante volte le avranno detto: “Ma cosa c’entra un fisico con il disarmo? Perché non si occupa di fisica e lascia parlare di guerra e armi chi se ne intende?”. Lei come rivendica il ruolo dello scienziato su questi temi?

«Prima di tutto mi lasci dire che gli scienziati sono intellettuali, cioè persone che vengono pagate non tanto per risolvere un problema tecnico specifico quanto per pensare. La filosofia è il mestiere di uno scienziato degno di questo nome. La tradizione del pensiero critico in Europa, nell’area del Mediterraneo, in Cina e in Oriente vanta secoli di storia. La figura dell’intellettuale pagato perché esprima un suo parere è decisiva, imprescindibile nelle società democratiche. In ogni caso, se ripensiamo alla storia del pensiero di opposizione agli armamenti e al confronto bellico, dobbiamo risalire al prototipo degli scienziati, Albert Einstein. Fu lui nel 1955, in piena Guerra fredda e corsa al riarmo nucleare, a promuovere assieme al filosofo-matematico Bertrand Russell la dichiarazione sul disarmo che porta i loro due nomi. Un documento storico, di chiaro stampo pacifista, che fu sottoscritto da scienziati e intellettuali di grandissimo profilo».

Un passaggio fondamentale recita: «Nella tragica situazione che l’umanità si trova ad affrontare riteniamo che gli scienziati debbano riunirsi per valutare i pericoli sorti come conseguenza dello sviluppo delle armi di distruzione di massa e per discutere una soluzione».

«Sono parole semplici che possono essere riassunte in un disperato appello: “Ma ci siamo tutti rincretiniti? Vogliamo davvero rituffarci in una guerra? Sarebbe qualcosa di cui ci pentiremmo tutti”. È ragionevole, immagino, ancora oggi trovare qualcuno che mi dica “occupati delle tue cose”. Ma è proprio di queste cose che si occupavano Einstein e i più grandi scienziati dell’epoca e di cui oggi voglio occuparmi io. Perché gli scienziati non hanno mai smesso di farlo».

In quale modo lo hanno fatto?

«Il disarmo nucleare tra Urss e Usa siglato con il Trattato Intermediate-Range Nuclear Forces che lei ha citato prima, poi completato con gli accordi Start, è nato grazie a un grandissimo impegno di fisici americani, russi ed europei che si incontravano in piena Guerra fredda e, da scienziati, affrontavano il problema del rischio di annientamento del genere umano. È un percorso lungo, nato subito dopo la seconda guerra mondiale, passato per la Conferenza di Pungwash sulla Scienza e gli Affari mondiali (l’organizzazione che nacque nel 1957 per dare impulso alla Dichiarazione Einstein-Russell, ndr) e poi continuato fino al nostro appello di dicembre scorso. La scienza, la fisica in modo particolare, hanno dato un continuo contributo al ragionamento sul destino del genere umano».

Ma oggi non è utopistico pensare a un dialogo del genere tra gli scienziati dei paesi Nato e i loro colleghi russi?

«Già, molti pensano che sia impossibile trattare proprio oggi, ma quanto deve essere stato difficile per scienziati russi e americani incontrarsi quando da una parte si diceva che i sovietici mangiavano i bambini e dall’altra che l’occidente è il regno dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo? Dagli intellettuali che si parlano può nascere un’idea. Pensare e parlare, questa è la via, non possiamo solo limitarci all’invio di armi. La mia impressione è che le guerre si combattano per interposta nazione, si arma l’Ucraina per indebolire Putin come l’Unione Sovietica armava il Vietnam per fiaccare l’America. Sta aumentando il clima di confronto come fosse uno scontro di civiltà: guardiamo la Cina, il fatto che mezzo miliardo di cinesi siano usciti dalla povertà è una bellissima notizia per il mondo, per noi, invece, la loro crescita è percepita come una minaccia».

Tutte le statistiche economiche dimostrano che l’industria bellica non porta ricchezza né occupazione. Non è, per usare un termine caro al ministro della Difesa Lorenzo Guerini, un investimento. Perché allora c’è questo affanno a produrre e vendere armi, in tutto il mondo e anche nel nostro Paese?

«Le armi servono innanzitutto a chi le produce. E circolano per l’enorme quantità di benefici che la politica trae dall’industria. È chiaro che l’industria bellica non è produttiva e che i numeri relativi al riflesso sull’economia sono risibili. Questo anche per la natura stessa della produzione bellica. L’industria alimentare o quella dei mezzi di trasporto, tanto per fare esempi, oltre a procurare posti di lavoro forniscono beni di consumo di cui la gente non può fare a meno. Le armi non le mangia nessuno, quale teoria economica potrebbe sostenere l’idea che un oggetto contenga o porti un vantaggio economico se è fatto per distruggere? Il punto, poi, è che non si tratta di un’industria civile e non fa quindi parte del vero mercato, non soggiace alle sue leggi e sostanzialmente non è soggetta alla concorrenza quindi i prezzi sono enormi rispetto ai costi reali. Per di più i soldi investiti sono pubblici oltre che tanti. Siamo noi a pagare gli aerei militari il doppio del costo di produzione, ad esempio. L’industria militare produce un sacco di soldi che però restano all’interno di un cerchio limitato alla politica e alla stampa».

Anche alla stampa?

«Certo, e le spiego perché. L’industria militare ha un legame diretto con la politica. Le faccio l’esempio degli Usa. C’è stata una richiesta di aumento del budget militare da parte del Pentagono, il ministero della Difesa americano. Bene, a questa richiesta ha fatto seguito una richiesta ben maggiore da parte del Congresso. Cioè, in pratica i parlamentari ritengono che la richiesta del Pentagono sia troppo bassa e finiscono per sostituirsi a chi è direttamente preposto a gestire le spese. Ma poi c’è un enorme e ingiustificato surplus di spese, una iperproduzione di cui non c’è reale bisogno e che risponde ad altre logiche. I soldi, le ripeto, se li spartiscono industria, politica e media e su questo ultimo attore le posso dire con certezza che è molto difficile parlare e scrivere qualcosa contro l’industria militare».

Ci parli del vostro appello per la riduzione delle spese militari. Si tratta di una proposta tanto efficace quanto semplice, ma nonostante provenisse da 50 premi Nobel e autorevoli scienziati ha avuto poco risalto. È stata banalizzata?

«Bene, in effetti l’idea è molto semplice. In questo momento l’umanità deve affrontare con urgenza problemi globali molto seri: il clima, le pandemie, la povertà estrema. Sappiamo tutti cosa bisognerebbe fare ma non riusciamo a farlo perché costa troppo. Come troviamo i soldi? La parola chiave è sempre la stessa: collaborando. Mettiamoci tutti d’accordo e diminuiamo in modo equilibrato e comune del 2 per cento all’anno per cinque anni le spese militari in modo che nessuno ci guadagna e nessuno ci perde. La piccola percentuale risparmiata libererebbe energie enormi per affrontare i problemi dolorosi che gravano sull’umanità, pensiamo a mille miliardi di dollari. A ciascuno dei governi noi proponiamo: non diminuire le spese unilateralmente, ma mettiti d’accordo per farlo collettivamente».

Si potrebbe obiettare che una misura del genere colpirebbe anche economia e posti di lavoro.

«Non è così. Mi preme sottolineare che non stiamo chiedendo di ridurre il turismo, una delle industrie più produttive in Italia, ma le armi che non hanno incidenza sul Pil, producono pochissima occupazione e non si può certo dire che abbiano un impatto positivo sulla popolazione. L’accoglienza è stata buona in alcuni paesi come l’Italia, pessima in altri, sono rimasto molto colpito del rifiuto di parlarne di alcuni media americani come il New York Times. Purtroppo, mentre l’appello stava guadagnando un po’ di scena, è scoppiata la guerra in Ucraina e la proposta ha perso impeto. La politica però è lenta, ha i suoi tempi. In Italia alcuni politici mi hanno detto che non porta voti, ma si sbagliano, il paese profondo è vicino a queste istanze e guarda a loro con interesse. Il fatto che il parlamento voti a stragrande maggioranza l’invio di armi all’Ucraina va anche contro i sondaggi».

La sua, e anche la mia, scrittrice preferita è Elsa Morante, proprio per come racconta la guerra in libri come La Storia. Fosse con noi oggi, cosa direbbe?

«Il sottotitolo di quel meraviglioso libro definisce la guerra “Uno scandalo che dura da diecimila anni”. Io penso che la Morante ha avuto la capacità straordinaria di vedere la guerra non con gli occhi del nemico ma con quelli dei singoli che soffrono, impigliati in una trappola più grande di loro. Al di là delle retoriche belliche, dell’odio, c’è l’umanità e in quel libro si capisce molto bene che la guerra genera sofferenza per tutti. Usciamo da questa follia che dura da 10 mila anni. Io aggiungerei “solo” da 10 mila anni, perché è possibile che prima non fosse stata inventata ancora. Ci sono tante cose da cui siamo riusciti a guarire, come la schiavitù e i sacrifici umani. Possiamo guarire anche dalla guerra».

 

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